«Potete vedere l’età dei computer dappertutto, tranne che nelle statistiche sulla produttività». Così parlò Robert Solow, economista premio Nobel. Era la fine degli anni ’80, il 1987 per la precisione, e quella è oggi nota come il paradosso di Solow: perché tra gli anni '70 e '80 l’informatica si era sviluppata a livelli enormi – la capacità di calcolo dei computer era aumentata di centinaia di volte nel giro di dieci anni – mentre la produttività era cresciuta solo di due, tre punti percentuali?
Gli economisti discutevano, il tempo passava e negli anni ’90 la produttività si riprese tutto quel che aveva perso, crescendo alla grande nel decennio successivo. Che fosse merito dei computer o anche della globalizzazione, il dibattito è aperto. Quel che è certo che è che questa seconda ondata di forte crescita della produttività ha portato con se un altro, forse ancora più cogente paradosso, più noto come big decoupling, grande disaccoppiamento. In estrema sintesi: perché, soprattutto negli Stati Uniti, al crescere della produttività, scendono sia i salari sia l’occupazione?
Una risposta pronta ce l’ha fornita recentemente Martin Ford, nel suo saggio “Il futuro senza lavoro”, uscito recentemente in Italia per il Saggiatore: «L’automazione sta facendo calare il valore dei lavoratori perché li sta rimpiazzando. Se oggi ce ne stiamo accorgendo è perché sta diventando un processo enorme, che sfugge a ogni controllo». Un trend che, a suo dire, non farà che peggiorare: «Perché le macchine stanno incominciando a pensare. Certo, ormai manipolano qualunque cosa, ma è nella loro testa che sta succedendo qualcosa di grosso».
Fosse solamente una questione di macchine che sostituiscono persone, sarebbe semplice. Ad esempio, l’economia della conoscenza ha costi marginali che tendono a zero. In un mercato concorrenziale perfetto – che è un modello astratto, ma comunque un benchmark importante – questo fenomeno porterebbe il prezzo a zero, tendenza dominante, se si pensa a Google con i suoi servizi di mail hosting e traduzione, ad esempio. A ciò si aggiunge il fatto che la globalizzazione, con i suoi mercati del lavoro a basso costo, ha ulteriormente inasprito questa tendenza: quel che non fanno le macchine, lo fanno persone che costano molto meno dei loro omologhi occidentali. Senza parlare della concentrazione di mercato a livello globale o ai problemi legati alla proprietà intellettuale, che dal file sharing al software libero ha avuto un impatto deflativo, aumentando il grado di diffusione della conoscenza ma concorrendo anch’essa a erodere il potere negoziale di alcuni lavoratori e il problema d’acquisto dei loro salari. Alcuni, per l’appunto: perché il secondo effetto perverso di questo secondo paradosso è la polarizzazione del mercato del lavoro, che tende a premiare i lavoratori con maggiori competenze penalizzando quelli con meno skills. In altre parole: la curva piatta dei salari nasconde in realtà una gigantesca polarizzazione. I salari alti sono diventati altissimi. Quelli bassi sono rimasti bassi. E quelli medi sono diventati bassi pure loro.
È possibile evitare che all’aumento della potenza di calcolo di hardware e software non corrisponda un aumento della produttività?
La grande questione della nuova economia digitale passa dalla soluzione di questi due paradossi. È possibile evitare che all’aumento della potenza di calcolo di hardware e software non corrisponda un aumento della produttività – come accade ancora oggi in Italia, dove la produttività è piatta da almeno vent’anni? Ed è possibile evitare che l’aumento della produttività porti con se una compressione dei salari e l’aumento delle disuguaglianze?
Le soluzioni sono sul tavolo. La prima si chiama reddito minimo, o tassa negativa sui redditi. La seconda si chiama assicurazione pubblica (o privata) sugli stipendi – proposta dallo stesso Solow, peraltro – che alcuni immaginano finanziata da una piccolissima aliquota da applicare su ogni acquisto. La terza, si chiama formazione continua: se il mondo va veloce, il lavoratore deve adeguarsi altrettanto velocemente a esso, continuando a imparare cose nuove per tutto l’arco della sua carriera, magari attraverso corsi organizzati dall’azienda stessa in cui lavora. Il dibattito è aperto. Ma di sicuro, sta (quasi) tutto qua.