La John Cabot University è un’isola felice nel cuore di Roma. Fondata nel 1972, rappresenta una delle realtà internazionali più apprezzate nel nostro Paese. Da qui passano ogni anno oltre mille studenti provenienti da più di 70 nazioni per seguire i corsi in Storia dell’arte, Affari internazionali e Business administration. Insomma, un fiore all’occhiello della formazione a stelle e strisce che attrae giovani talenti da lanciare nel mondo del lavoro. Una mission, quest’ultima, affidata a un’italiana: Antonella Salvatore, direttrice del centro di avviamento alla carriera e autrice del libro Sdraiati o stressati? Solo in cerca di lavoro. Consigli per giovani disorientati (edizioni Franco Angeli).
Il testo è un pamphlet agile di 111 pagine che parte da alcuni dati granitici: l’Italia ha la percentuale più bassa di laureati in Europa (il 23% contro una media Ue del 30%), siamo al 25esimo posto per grado di digitalizzazione, nel “Corruption Perception Index” bisogna scorrere fino al numero 54 per trovare il nostro Paese, per il 50% della popolazione occorrono mediamente 5,9 anni per passare dallo stato di studente allo stato di professionista (il dato più alto mai registrato nell’area Ocse).
Utilizzare la parola crisi, dunque, è quasi un automatismo. Eppure, le eccellenze e le possibilità non mancano. La stessa Salvatore ne è un esempio: «Prima di rivestire il mio attuale ruolo alla John Cabot University, mi occupavo di retail, soprattutto sui mercati esteri. Sono arrivata qui otto anni fa. Volevo portare in aula la mia esperienza professionale, così ho proposto all’università un progetto formativo che puntasse ad avvicinare il mondo accademico a quello lavorativo. Dopo i primi corsi di marketing, si è aperta la posizione che attualmente ricopro e mi è sembrato naturale provarci». Il nuovo ruolo, poi, ha significato nuove responsabilità e, soprattutto, un punto d’osservazione privilegiato sull’anello di congiunzione mancante fra scuola e lavoro. In una parola: cultura.
I nostri giovani hanno ereditato un contesto culturale che ha una visione a breve termine e sconta una bassa propensione al rischio.
«I nostri giovani hanno ereditato un contesto culturale che ha una visione a breve termine e sconta una bassa propensione al rischio, al mettersi in gioco – afferma Salvatore – . Le responsabilità di tutto questo sono diverse, ma potrebbero essere riassunte in tre livelli: individuale, famigliare e istituzionale. In tutti i casi, per uscirne serve uno scarto importante». Per realizzarlo il punto di partenza è un processo di self-understanding che, nell’era dei social network, di Internet e di un facile e rapido accesso alle informazioni più disparate diventa, paradossalmente, una delle attività più difficili. Lo dimostrano le sessioni di colloquio a cui i giovani candidati si cimentano per cercare un lavoro. Molto spesso quando viene loro chiesto di indicare una propria debolezza, rimangono senza parole oppure raccontano di un proprio punto di forza che solo all’apparenza può sembrare una debolezza. E poi c’è la questione curriculum. Al di là delle indicazioni e dei modelli da imitare per raggiungere il giusto grado di efficacia, i problemi di fondo non scompaiono lasciando posto a una dissonanza fra skill dichiarate e quelle effettive. In particolare soft skill. Un esempio? Definirsi persone attente al dettaglio e poi non accorgersi degli errori di sintassi e ortografia nella sezione “esperienze formative”. Detto altrimenti, con le parole utilizzate da Salvatore nel suo libro, «sembra esserci uno scollamento tra la persona che vive e la sua stessa vita: è come se la persona non vivesse né controllasse la vita che in fondo gli appartiene».
Questa lacuna non è solo una questione individuale. Il motto “non si smette mai di imparare” (specie qualcosa di nuovo su se stessi) ha comunque il suo senso. Per questo Salvatore chiama in causa anche il sistema formativo (secondo l’Ocse il 35% dei lavoratori italiani è impiegato in campi che nulla hanno a che vedere con il proprio percorso di studi) e professionale (che, per esempio, dà lavoro solo al 48,3% delle donne). E ovviamente, per chi è abituato a organizzare 40 workshop settimanali all’anno, lo fa in senso proattivo: «Il 14 settembre lanceremo l’evento “Sistema Pmi”. Si tratterà di un convegno aperto a studenti, laureati e giovani professionisti e altre Pmi. Lo scopo non è solo quello di mettere in relazione i lavoratori di domani con percorsi di crescita e formazione per indirizzare al meglio le proprie scelte e la propria carriera. Vorremmo che questo fosse anche il momento in cui il tessuto produttivo possa scambiarsi best practice a livello B2B per implementare le proprie iniziative e attivarne di nuove».
Il lavoratore deve essere una risorsa per l’azienda e al contempo deve dimostrare di meritarsi questa valutazione.
Detto altrimenti, non basta mandare un proprio dipendente a un corso di inglese da 30 ore o agli incontri sulla sicurezza in azienda. Il lavoratore deve essere una risorsa per l’azienda e al contempo deve dimostrare di meritarsi questa valutazione. I trouble maker non fanno bene a nessuno. Un problem solver, invece, sa che la speranza (di un lavoro, di un aumento, di un miglioramento della propria condizione professionale e personale) «non è una strategia».