La risposta è secca: «Per contrastare la tesi prevalente secondo la quale il lavoro va scomparendo (la cosiddetta "fine del lavoro"), come sostiene fra gli altri Jeremy Rifkin». Così il sociologo Pierpaolo Donati risponde a chi gli chiede perché abbia sentito la necessità di pubblicare “Quale lavoro? L’emergere di un’economia relazionale” (ed. Marietti 1820, 125 pagine). Una posizione netta che il sociologo dell’Università di Bologna argomenta in questo dialogo.
Professore, però la crisi non è un’invenzione dei catastrofisti…
Dobbiamo intenderci. Io non dico che non esista la disoccupazione, sostengo però che la disoccupazione non è congenita al sistema economico, ma è il frutto di un paradigma sociale e di una cultura del lavoro non più al passo con i tempi. Come ho scritto nel libro, se la concezione prevalente del lavoro rimane quella dell’epoca moderna, com’è ancora il caso in larga parte del mondo, il problema della disoccupazione e della precarietà verrà ancora una volta affrontato con vecchi strumenti, caratterizzati dalla ricerca di nuove forme di regolazione degli interessi e delle transazioni fra attori economici e politici che si muovono nel compromesso fra Stato e mercato. Le politiche del lavoro basate sul complesso di misure che io riassumo nell’assetto lib/lab (libertà di mercato e uguaglianza assicurata dallo Stato) sono e saranno intrinsecamente insufficienti a far fronte ai problemi della mancanza di lavoro e soprattutto della scarsità di lavori soddisfacenti. Il nodo di base da sciogliere è quello della concezione meccanicistica del lavoro.
La disoccupazione non è congenita al sistema economico, ma è il frutto di un paradigma sociale
Ovvero?
Troppo spesso ancora oggi si equipara il lavoro di una persona a quello di una macchina. Fino a ieri però avevamo macchine banali, per certi versi “stupide”. E l’uomo era insostituibile: da questo presupposto è discesa per esempio una contrattualistica giuslavorista fondata sul posto fisso, sulla misura delle ore di lavoro, sulla separazione netta fra luogo di lavoro e tempo libero. Oggi invece le performance tecnologiche sono molto più alte. I robot o i computer di ultima generazione possono sostituire il lavoro dell’uomo. Specialmente se la tipologia del lavoro rimane funzionale, meccanicistica. Ma questo è il passato. All’orizzonte abbiamo un altro modello, che poggia su altre basi concettuali.
Lei parla di "economia relazionale". Veniamo al sodo: è un modello in grado di assicurare un posto di lavoro a tutti?
Il punto è che, se analizziamo la realtà, quello dell’economia relazionale è lo schema più innovativo. Uno schema dentro il quale le macchine continueranno ad esistere e ad assolvere, sempre meglio, alle loro funzioni. Le persone invece si dedicheranno a quelle mansioni relazionali in cui la tecnologia può essere solo di supporto e mai sostitutiva. In questo senso il paradosso di una disoccupazione funzionale a un certo modello economico del vecchio capitalismo industriale viene meno. E uno scatto non da poco.
A quali genere di lavoro pensa?
Gli ambiti possono essere diversi: pensi a tutti i lavori di cura o di assistenza sociale e sanitaria (secondo l’organizzazione mondiale della sanità il 75% delle patologie necessitano di cure relazionali e solo nel 25% dei casi è necessario l’intervento farmacologico o chirurgico), a quelli in ambito artistico o culturale, ma anche a tutto il campo dell’educazione, per non parlare dei servizi di welfare, inclusi quelli che devono far fronte ai grandi processi migratori. E guardi che non si tratta di pensare a un mondo inesistente o fantasticato: negli ultimi 20 anni come è stato documentato dall’organizzazione internazionale del lavoro l’80% delle professioni è cambiato ed è probabile che nei prossimi 20 anni l’80% delle professioni cambierà ancora. Questo sa cosa significa?
Cosa?
Che il tasso di innovazione sulle tipologie di lavoro nel prossimo futuro sarà molto alto. Il punto è questo.
Le aree del coaching o del counseling hanno margini di allargamento ancora inesplorati
Qualche altro esempio?
Le aree del coaching o del counseling hanno margini di allargamento ancora inesplorati. Un’altra linea di cambiamento che ho provato a individuare è segnata dall’idea che i nuovi lavori saranno “inventati”. Le nuove generazione dovranno creare da sé le attività, le occupazioni e gli impieghi inserendosi nei processi di innovazione tecnologica, economica e sociale (smart work). Ma ciò non significa che il lavoro diventi un fai da te individuale. Anzi sarà il lavoro in rete che deciderà il successo o l’insuccesso delle start up e delle iniziative di nuovi lavori in genere. C’è poi tutto il tema della co-production a cui si stanno avvicinando le aziende più all’avanguardia e vale per tutti i settori.
Cosa s’intende per co-production?
Co-production significa che tu produci qualcosa che serve davvero il tuo utente/cliente. Il prodotto o il servizio quindi nascono dalla collaborazione, dalla relazione quindi, fra le due parti. Oggi invece il modello che va ancora per la maggiore è quello dell’induzione del bisogno. Ma questo alla lunga produce due effetti nocivi: non dà risposte ai bisogni reali e genera obsolescenza, ovvero perdita di valore e di efficienza economica. In una parola produce quella che io definisco stress economy: lavoratori stressati e clienti/utenti insoddisfatti.