«Il gioco è simile, il mondo è diverso». Ettore Messina non è semplicemente un allenatore di basket. Vice allenatore dei San Antonio Spurs guidati dal decano dei coach americani Gregg Popovich dal 2014, è una specie di leggenda vivente della pallacanestro italiana ed europea: allena da quando aveva sedici anni, e nel mezzo è passato da alcuni dei club più vincenti del basket italiano, la Virtus Bologna e la Benetton Treviso, dalla nazionale italiana, da club stranieri leggendari come la Cska Mosca e il Real Madrid, fino a una prima esperienza da vice allenatore Nba coi Los Angeles Lakers. L’abbiamo raggiunto in piena pre-stagione, nel turbinio di allenamenti e partite che preludono alla sfiancante maratona dell’Nba, 82 partite più i playoff.
Quella di Messina, quella del capo allenatore in Europa che va a fare l’assistant coach in America, è una storia esemplificativa, a suo modo, perché è contemporaneamente la storia di una reinvenzione professionale, di una rivoluzione culturale, di una necessaria prova di umiltà ed equilibrio per chi, da leggenda, decide di fare il salto in una nuova organizzazione più grande e di successo, dove improvvisamente è uno dei tanti. Pur nell’eccezionalità del mondo in cui ha luogo, è una storia che potrebbe vivere chiunque, nel suo percorso professionale: «La prima cosa che ho pensato? Che qui è davvero tutto diverso, a partire da un calendario molto più fitto di quello europeo, fatto di una partita dopo l’altra – spiega a Morning Future -. Da lì discende un rapporto diverso tra giocatore e allenatore, e tra i giocatori stessi. E poi ci sono nuove terminologie, nuovi criteri di allenamento, una diversa cultura in cui bisogna immergersi da capo a piedi».
Non bastasse, c’era la necessità di reinventarsi assistente, dopo 25 anni da allenatore capo: «È un ruolo molto delicato – spiega -. L’assistente deve capire quando parlare e quando rimanere zitto, deve aiutare l’allenatore, senza esasperare il suo stato d’animo né esaltarlo, Non c’è nulla di automatico, in questo. Bisogna lavorarci parecchio». Guai adattarsi e basta però: venire da un contesto diverso è infatti un modo per portare qualcosa di nuovo in un’organizzazione consolidata: «Io ho cercato di portare un po’ di dubbi. Questa è una grande organizzazione, e come tutte le grandi organizzazioni, fa fatica a dubitare in se stessa. Così ci ho provato: perché non facciamo questo, perché non proviamo a fare quello? Di dieci proposte, nove le hanno buttate vie, ma una su dieci la prendono. E in quel momento capisci di aver inciso nella mentalità e nella storia di un’organizzazione pazzesca come i San Antonio Spurs».
A un certo punto devi chiederti se sono più importanti le organizzazioni o i principi.
Anche vittoria e sconfitta sono concetti molto diversi tra Europa e America: «Noi siamo sempre legati all’ambiente in cui viviamo. Le ultime generazioni di allenatori europei sono cresciute a immagine e somiglianza della scuola jugoslava – spiega -. E come loro, viviamo malissimo la sconfitta, spingiamo sempre l’atleta a dare il massimo e siamo estremamente esigenti e pressanti. Qui è diverso: un po’ per questione culturale un po' perché ci sono 82 partite: devi saper metabolizzare la sconfitta, dopo 24 ore hai subito una nuova partita. È completamente diverso. È la competizione che stressa il giocatore, non l’allenatore. L’allenatore deve tranquillizzare, semmai».
Nba vuol dire anche star system, ma non è il caso dei San Antonio Spurs, una società tra le più vincenti degli ultimi vent’anni, plasmata a immagine e somiglianza del suo head coach Greg Popovich: «Noi abbiamo un ambiente molto cameratesco, personaggi estremamente inclusivi. Qui si crede nell’inclusione, nella socialità, nel ritrovarsi a cena. Siamo un po’ diversi, rispetto alle altre squadre Nba». Molto, ovviamente, dipende da Popovich, «un uomo con una grandissima “people skill”, una persona calda, empatica, che investe molto nelle relazioni umane anziché nelle relazioni di lavoro -, spiega Messina – Si può cercare di apprendere qualcosa di lui, ha grande leadership, grande senso di lealtà, ha una grande capacità di gestire il tempo a disposizione che per chi allena è molto poco e per gestire le caratteristiche tecniche dei giocatore. È un leader, ma non si prende sul serio».
Sembra una contraddizione, per i modelli di management europei: da una squadra che è un meccanismo perfetto ci si aspetterebbe un allenatore maniacale, intransigente: «Invece no – spiega Messina -. Questa è una realtà attenta alle relazioni umane, un po’ più leggera, senza l’ansia di raggiungere il risultato. Alcuni manager lo troverebbero lascivo, un po’ irresponsabile, mentre per me è un ambiente in cui è chiaro il senso di responsabilità. Riuscire a combinare queste due cose, un ambiente caldo ed empatico, dove le regole sono rispettate in funzione di una loro consapevole accettazione, è la sfida massima per chi deve dirigere». A partire da una domanda che per Messina è LA domanda a cui ogni manager deve rispondere, per capire chi è: « A un certo punto devi chiederti se sono più importanti le organizzazioni o i principi».
Ovviamente, per Messina e i San Antonio Spurs, la risposta giusta è la seconda: «È sulla base dei principi che selezioniamo i giocatori. Popovich insegna che la gente non la cambi, il discorso viene fatto a monte. C’è un forte investimento sulla selezione affinché si possa convivere al meglio – spiega Messina -. Qui non abbiamo mai fatto firmare gente che altrove era andato male, convinti di farlo rendere meglio. Qui si sceglie chi è funzionale all’attitudine». No, non è soltanto basket.