A maggio il Parlamento Europeo ha approvato una direttiva sulla trasparenza salariale per cercare di ridurre le differenze di retribuzione tra uomini e donne che svolgono gli stessi lavori. La norma nasce da un persistente divario negli stipendi, che «nell’Unione si è attestato al 13% nel 2020, con variazioni significative tra gli Stati membri, e che negli ultimi dieci anni si è ridotto solo in misura minima», dice il testo della direttiva.
Il principale strumento su cui si basa la direttiva è la trasparenza salariale, che impegnerà i datori di lavoro a rendere pubbliche le informazioni sui livelli retributivi.
Il secondo strumento della direttiva è quello della valutazione congiunta delle retribuzioni tra datore di lavoro e lavoratore (con la presenza anche dei rappresentanti dei lavoratori), che si verifica quando c’è una differenza del livello retributivo medio tra i generi di almeno il 5%, in una qualsiasi categoria di lavoratori, che non può essere motivata da criteri oggettivi, o che il datore di lavoro non ha eliminato nell’arco di sei mesi. Il permanere di questa differenza può portare la lavoratrice a chiedere il risarcimento.
Le direttive europee non hanno effetto immediato negli Stati membri, ma devo essere recepite dai singoli Stati che hanno la facoltà di definire disposizioni nazionali per conseguire l’obiettivo fissato dalla direttiva stessa. L’Italia avrà tempo fino al 7 giugno 2026 per integrare nel proprio ordinamento nazionale la norma.
Cosa si intende per “trasparenza”
La trasparenza salariale è il perno centrale della norma che, tuttavia, non prevede la pubblicazione degli stipendi di ogni singolo lavoratore. L’articolo 7, infatti, spiega che ai lavoratori viene garantito «il diritto di richiedere e ricevere per iscritto, informazioni sul loro livello retributivo individuale e sui livelli retributivi medi, ripartiti per sesso, delle categorie di lavoratori che svolgono lo stesso lavoro o un lavoro di pari valore». Il passaggio delle informazioni non sarà diretto ma eseguito attraverso i rappresentanti dei lavoratori.
Allo stesso tempo, l’articolo 9 impegna i datori di lavoro a comunicare il divario retributivo di genere, anche per quanto riguarda le componenti complementari o variabili, e il divario retributivo mediano di genere.
«Il rafforzamento degli obblighi di reporting sulle retribuzioni ha tra gli obiettivi quello di incentivare un processo virtuoso, che porti le imprese ad assumere maggiore consapevolezza sulla propria struttura occupazionale e di retribuzione in un’ottica di genere e, allo stesso tempo, aiutare a evidenziare eventuali fenomeni discriminatori», dice Alessandra Casarico, Professoressa di Economia Pubblica all’Università Bocconi ed esperta di tematiche di genere.
Ma come Casarico spiega, ci può essere il rischio che la trasparenza porti a una diminuzione del divario di genere tramite l’abbassamento dei salari maschili e non attraverso l’innalzamento di quelli femminili. «I dati che abbiamo su esperienze di altri Paesi, come il Regno Unito, mostrano che c’è stata una riduzione dei differenziali di salario tramite però un abbassamento dei salari maschili», dice Casarico.
La norma prevede che la trasparenza retributiva sia rispettata anche in fase di assunzione, obbligando il datore di lavoro a rendere noto già in fase di colloquio la retribuzione iniziale, impedendogli di chiedere ai candidati informazioni sulle retribuzioni percepite precedentemente.
Benché sia poi complesso far rispettare questa norma nella quotidianità, si tratta comunque di due novità importanti, poiché accade frequentemente, in Italia, che il candidato riceva informazioni sullo stipendio solo in fase avanzata di selezione, così come è frequente che il futuro datore di lavoro domandi, sempre in fase di selezione, i livelli retributivi delle precedenti esperienze professionali, calibrando l’offerta su di esse.
A chi si applica la nuova norma
Secondo il testo di Legge, la Direttiva Europea si applica ai datori di lavoro sia del settore pubblico, sia di quello privato, e a tutti i lavoratori che hanno un contratto di lavoro o un rapporto di lavoro «definito dal diritto, dai contratti collettivi e/o dalle prassi in vigore in ciascuno Stato membro». Tuttavia, gli obblighi comunicativi variano a seconda della dimensione dell’azienda, e quelle con meno di cinquanta dipendenti ne sono esonerate.
«Secondo il Codice delle Pari Opportunità, riformato nel nostro Paese in anni recenti, la soglia per gli obblighi di reporting è già fissata a 50 dipendenti», precisa Casarico. «In un Paese come l’Italia, con elevata presenza di imprese medio-piccole, l’abbassamento da 100 (come richiesto dal precedente Codice delle Pari Opportunità) a 50 dipendenti ha allargato molto la platea delle imprese interessate dagli obblighi di stilare la relazione su salari e struttura occupazionale all’interno dell’azienda». In ogni caso, «occorre comunque considerare che è spesso nelle aziende di maggiori dimensioni che il differenziale retributivo è più elevato, perché dipende dalle diverse posizioni che uomini e donne occupano nella struttura aziendale, che prevede più livelli nelle imprese di maggiori dimensioni».
La norma intercetta queste particolarità e la contrasta obbligando le aziende con più personale a condividere le informazione più frequentemente. Le aziende con più di 250 dipendenti, infatti, devono fornire informazioni sul divario retributivo di genere ogni anno, mentre tra i 100 e i 249 dipendenti ogni tre anni.
I risarcimenti per le lavoratrici
La Direttiva non fissa un tetto massimo per il risarcimento di una lavoratrice che ha subito una discriminazione retributiva basata sul genere, e afferma che esso dovrebbe coprire interamente i danni subiti, comprendendo il recupero integrale delle retribuzioni arretrate e dei relativi bonus o pagamenti in natura. Così come il risarcimento per le opportunità perse, quali l’accesso a determinate prestazioni in funzione del livello retributivo, e per i danni immateriali, come il disagio dovuto alla sottovalutazione del lavoro svolto.
Il Gender Pay Gap in Italia
Il gender pay gap, ovvero la differenza di genere nelle retribuzioni, in Italia varia a seconda che si consideri il settore pubblico, quello privato o quello dei lavoratori autonomi. Nel pubblico, tra i dipendenti con età minore di trent’anni, la retribuzione media della componente femminile supera (11,4%) quella media della componente maschile. Questo vantaggio iniziale si rovescia però, col passare degli anni, a favore della componente maschile, fino a raggiungere il 5,3% per le persone over 50.
Nel settore privato, invece, il gender pay gap presenta fin dall’inizio un vantaggio consistente per gli uomini (8,2%), crescendo al crescere dell’età fino a raggiungere il 24,4% per gli individui con più di cinquant’anni. Se si analizzano, poi, le retribuzioni tra i professionisti, il divario è ancora più grande: i dati Ocse mostrano infatti che nel nostro Paese il gender pay gap riferito al reddito medio annuo da lavoro autonomo supera il 33 per cento.
Per il World Economic Forum, l’Italia occupa il 79esimo posto su 156 Paesi nella classifica del gender gap. E restringendo l’obiettivo alla partecipazione economica della componente femminile, scendiamo addirittura al 104esimo posto.
«Se calcolato sui salari orari medi, il gender pay gap in Italia è tra quelli più bassi nella Unione Europea ed è pari al 5,5%», dice Casarico. «Ma questo si spiega sia con i valori contenuti del differenziale salariale di genere nel settore pubblico sia con la bassa partecipazione femminile al mercato del lavoro. In Italia sono prevalentemente le donne con elevati livelli di istruzione che partecipano al mercato del lavoro: c’è, in altre parole, una selezione positiva nel mercato del lavoro per le donne, che incide sul valore del differenziale salariale di genere. Anche la maternità genera un impatto negativo sulle remunerazioni delle donne, quella che viene chiamata child penalty, prevalentemente associata in Italia a una variazione nell’orario di lavoro e in parte alla variazione nel salario orario».