«Esiste un’ingiustizia profonda, culturale ed economica, che blocca le carriere delle donne italiane. Con questa legge facciamo un primo passo per sanare questa ingiustizia». A dirlo è Chiara Gribaudo, deputata del Partito Democratico e prima firmataria della “Legge sulla parità salariale e di opportunità sul luogo di lavoro”, da poco approvata in via definitiva in Parlamento.
La legge è passata con voto unanime alla Camera e al Senato dopo un iter molto lungo, che ha attraversato tre governi. Per Chiara Gribaudo è un grande successo: il lavoro è una sua battaglia da quando, a marzo 2013, è stata eletta alla Camera. Con questi sei articoli dedicati alla parità salariale fra i generi, viene integrato il Codice delle Pari Opportunità del 2006. L’obiettivo è ridurre il gender pay gap, cioè la differenza di salario tra donne e uomini, e far emergere ogni discriminazione, anche indiretta, in ambito lavorativo.
«La legge dà concretezza ai principi di equità già sanciti in Costituzione e nella legge Anselmi del 1977, che rischiavano di rimanere lettera morta», afferma Gribaudo. Il testo agisce su due binari: la trasparenza e la premialità.
Cosa prevede la legge
Le aziende con 50 e più dipendenti hanno l’obbligo di stilare un rapporto sulla situazione del personale secondo diversi indicatori: salari, organizzazione interna, opportunità di carriera, inclusività e conciliazione dei tempi di vita e di lavoro. Successivamente, dovranno trasmettere il rapporto al Ministero del Lavoro, all’Ispettorato del Lavoro, ai sindacati e alle Consigliere di Parità. Il testo sarà consultabile su una piattaforma pubblica anche dalle lavoratrici e dai lavoratori; in questo modo si potranno garantire trasparenza e accesso ai dati.
Per la mancata o errata compilazione del rapporto, si prevedono multe da mille a 5mila euro e la revoca degli sgravi fiscali. Come incentivo, si introduce la Certificazione di Parità, che riconosce tutte quelle imprese che si attivano concretamente per ridurre il divario di genere, tenendo conto delle opportunità di crescita, della parità di salario a parità di mansione e della tutela della maternità. Chi ottiene la Certificazione, avrà diritto fino a 50mila euro di sgravi contributivi e un meccanismo di vantaggio nelle gare pubbliche. La norma prevede anche la possibilità per le aziende con meno di 50 dipendenti di adempiere al report per poter accedere così agli sgravi.
La legge dà concretezza ai principi di equità già sanciti in Costituzione e nella legge Anselmi del 1977, che rischiavano di rimanere lettera morta.
Chiara Gribaudo, deputata PD
Un grande passo avanti
Per Chiara Gribaudo, la vittoria è prima di tutto politica. «Rimarrà una delle pochissime leggi di iniziativa parlamentare approvate in questa legislatura, segno che quando viene data la possibilità al Parlamento di confrontarsi, pur partendo da differenti opinioni, si possono trovare soluzioni che allargano il campo dei diritti dei cittadini», racconta. «Il Parlamento ha prodotto un testo avanzato a livello europeo, dove l’Italia, in questo momento, occupa posizioni in fondo alla classifica in termini di uguaglianza e inclusione. Con i colleghi parlamentari ho lavorato per mettere insieme i contributi di tutte e tutti e costruire il più largo consenso possibile. L’unanimità ha mandato un segnale forte al Paese e al Governo».
È vero, infatti, che prima di questa legge il Global gender gap report del World Economic Forum stimava che l’Italia avrebbe impiegato 200 anni per chiudere il gap salariale. Un tempo troppo lungo, insostenibile, inammissibile.
«Ora la palla passa al Governo», dice Gribaudo, «che dovrà approvare i decreti attuativi. Con l’inizio dell’anno il testo entrerà in vigore, e con esso l’obbligo di redigere il rapporto per ottenere la Certificazione di parità. Grazie ai dati raccolti, le donne potranno rendersi conto se nel luogo in cui lavorano o vorrebbero lavorare c’è o meno un’attenzione alla parità di genere. Le aziende stesse saranno incoraggiate ad adottare organizzazioni virtuose per migliorare la propria reputazione e poter usufruire degli incentivi messi a disposizione».
Quello che resta da fare
Il gender pay gap può avere diverse forme, diversi livelli di iniquità, e di solito peggiora con il crescere del livello di inquadramento e con le mansioni nell’azienda. In Italia, il divario salariale arrivare al 17% nel settore privato: in pratica le donne non fanno carriera, nonostante rappresentino il 56% dei laureati, e occupano solo il 28% delle posizioni di manager e direttore d’azienda.
I dati INPS parlano chiaro: dopo 20 anni dalla prima maternità, una lavoratrice con figli guadagna fino al 12% in meno rispetto a una che non ne ha. La percentuale di madri che non ha mai lavorato, con almeno un figlio, 11,1%, è quasi tre volte la media europea del 3,7%. Inoltre, secondo l’ISTAT, tra coloro che svolgono un lavoro part-time, il 65% delle donne è involontario contro l’11% degli uomini. Questa disparità è esplosa con la pandemia, che ha spazzato via il lavoro di quasi mezzo milione di donne.
Le buone leggi posso aiutare, ma da sole non bastano: per farle vivere appieno serve l’impegno di tutte e tutti, dentro e fuori dal Parlamento
Chiara Gribaudo
È per questo motivo che il lavoro non si esaurisce con questa legge. «Ci sono altri provvedimenti strettamente connessi alla parità salariale che pure perseguono l’obiettivo dell’emancipazione femminile, attraverso una giusta e paritaria retribuzione delle donne e la condivisione della genitorialità, per consentire anche agli uomini di vivere l’esperienza della cura», dice Gribaudo. «Ne cito uno per tutti, il disegno di legge del Partito Democratico per la maternità e la paternità obbligatorie per 5 mesi, i congedi parentali paritari per 12 mesi complessivi con indennità rafforzate, il part-time di coppia secondo il modello tedesco che consente di ridurre l’orario del 50% con una retribuzione al 75%. Inoltre, attraverso il PNRR, abbiamo l’opportunità di aumentare i posti negli asili nido, questo libererà energia e competenza soprattutto femminile, che dovrà trovare nuova occupazione», dice Gribaudo.
Per il World Economic Forum, l’Italia occupa il 63mo posto su 156 Paesi nella classifica del gender gap, e anche restringendo l’obiettivo alla sola Europa siamo tra le ultime posizioni. «Abbiamo molto da imparare da altri Stati», conclude Gribaudo, «quindi considero il confronto con altri Paesi utile e necessario. In Italia, ancora troppo spesso, sento parlare di “mammo” per definire un padre che si occupa dei propri figli e penso che potremmo trarre vantaggio nell’ispirarci a quelle nazioni che hanno una concezione più paritaria dei ruoli tra uomo e donna nella società. Per questo, però, non serve un intervento legislativo, ma una vera rivoluzione culturale. Le buone leggi posso aiutare, ma da sole non bastano: per farle vivere appieno serve l’impegno di tutte e tutti, dentro e fuori dal Parlamento».