Tra i 17 Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile (SDGs) di cui si compone l’Agenda 2030 dell’Onu, ce n’è uno, l’undicesimo, dedicato alla realizzazione di “città e insediamenti umani inclusivi, sicuri, duraturi e sostenibili”. I target da raggiungere sono molteplici: dall’accesso a sistemi di trasporto ben strutturati, sostenibili, e convenienti per tutti, a un’urbanizzazione inclusiva e partecipata, dalla salvaguardia del patrimonio culturale e delle aree verdi al miglioramento della qualità dell’aria e della gestione dei rifiuti. Creare città e comunità sostenibili vuol dire, si legge nell’Agenda, attuare politiche che tengano conto dei soggetti più vulnerabili, come bambini, anziani, persone con disabilità, piani integrati verso l’efficienza delle risorse, la mitigazione del rischio, la resilienza ai disastri. Vuol dire, in altre parole, costruire luoghi capaci di riflettere, nelle forme e nei ritmi, le necessità di chi li abita, ambienti vivi e adattivi in grado di seguire il cambiamento e di rispondere all’imprevisto.
Se di smart city si parla già dal 2009, quando a Rio de Janeiro, per la prima volta al mondo, viene impiegata la tecnologia per una migliore gestione dei rifiuti, e sebbene esistano già realtà urbane virtuose, basti pensare a Londra, Tokyo, Barcellona, Parigi, Bologna, è con la pandemia che l’attuazione di strategie di gestione intelligente delle nostre città è diventata un imperativo. Come ha sottolineato Federico Parlotto, fondatore di Mobility Chain, studio specializzato nella pianificazione di mobilità sostenibile:
La pandemia ha aperto un’incredibile finestra sul futuro per la città, dove sostenibilità e vivibilità possono essere i valori principali.
Grazie all’intelligenza artificiale, all’IoT e ai Big Data, non solo è possibile fotografare e conoscere in maniera approfondita il presente, ma anche, impiegando modelli e algoritmi predittivi, disegnare il futuro con conseguenze significative sull’ambiente, sulla sicurezza, sui trasporti e l’urbanistica, sulla salute e sulle casse di famiglie, organizzazioni ed enti pubblici. Naturalmente le città, soprattutto i loro amministratori, devono imparare a comprendere l’enorme mole di informazioni che le tecnologie possono raccogliere, devono essere in grado di difenderle e metterle a sistema, affinché siano davvero uno strumento strategico anche per le generazioni future.
Il primo appuntamento di City Vision, piattaforma di riferimento per le Intelligent Cities, nata da un progetto di Blum e Padova Hall, ha fatto tappa a Milano, nell’arena di PHYD Hub, con un talk dal titolo “City Vision Talk Dati. Tra open data e sicurezza: opportunità e rischi per la smart city”. A confrontarsi sul tema in 3 differenti panel, ragionando di risorse, best practice e cybersecurity, Ruggiero Colonna Romano, Project manager Milano Smart City Alliance, Chiara Tacco, Head of Growth di MIPU, Carlo Rossi Chauvenet, Partner CRCLEX, Armando Fiumara, Head of marketing B2G Italy EnelX, Matteo Flora, Hacker e Docente, Maurizio Manzi, Assessore al Bilancio, Innovazione e Digitalizzazione del Comune di Cremona, Maurizio Napolitano, Head of Unit Digital Commons Lab della Fondazione Bruno Kessler e Katia Piccardo, Sindaca di Rossiglione (GE). A moderare l’incontro, il direttore editoriale di City Vision, Domenico Lanzilotta, e i giornalisti Silvia Pagliuca e Luca Tremolada.
Cybersecurity e PA
Oggi in Italia il settore della cybersecurity vale circa 1 miliardo e 400 milioni di euro con una crescita del 12% rispetto all’anno precedente. Secondo stime recenti, inoltre, entro il 2024 le aziende spenderanno oltre 2 miliardi di euro in sicurezza informatica. È evidente che a fronte di tecnologie sempre più immateriali, digitali e smart, cresca in modo esponenziale anche la loro vulnerabilità.
La protezione dei dati in un ecosistema informatico così densamente interconnesso e in una società che si professi o voglia essere davvero data driven è indispensabile ed è ancora più urgente nella pubblica amministrazione, storicamente poco flessibile alle trasformazioni, soprattutto tecnologiche. Non sorprende, dunque, che il PNRR abbia previsto una spesa di 6,4 miliardi di euro per attuare il processo di migrazione dai data center della Pubblica Amministrazione verso il cloud nazionale. Secondo l’Agenzia per l’Italia digitale, il 95% degli 11 mila data center delle PA non rispetta i requisiti minimi di sicurezza, efficienza e affidabilità.
Se persino i server di Facebook possono smettere di funzionare improvvisamente e per un tempo considerevole, come accaduto nell’ottobre del 2021, con queste premesse cosa può fare un piccolo Comune, ad esempio, per difendersi da un attacco hacker?
Per Matteo Flora bisogna considerare due aspetti, il primo è la policy, il «che significa essere preparati agli attacchi, alla discontinuità e a quello che gli americani chiamano misuse ovvero un uso sbagliato dei dati». Il secondo è relativo all’importanza della sorveglianza del cloud, «il problema non è quasi mai architetturale, ma è legato alla qualità del presidio. Mi chiedo se ci sarà la lungimiranza di comprendere questo aspetto»
Ma c’è un altro elemento, forse il più significativo, quando si parla di cybersecurity, ed è il grado di consapevolezza delle persone a riguardo. Sono state proprio le persone, i singoli dipendenti, gli assessori a trasformare Rossiglione, un piccolo Comune di appena 3 mila abitanti in provincia di Genova, da bandiera nera per il digital divide ad esempio virtuoso in materia di protezione dati. Per il sindaco Katia Piccardo, infatti, affinché l’investimento nella trasformazione digitale sia efficace è necessario preparare adeguatamente cittadini e impiegati ad adottare uno sguardo dinamico sui dati, sul loro valore e sull’urgenza di proteggerli e tutelarli.
Il valore degli Open Data per una cittadinanza digitale
Oggi per governare una città, sistema altamente complesso, serve semplificare, e in questo i dati amministrativi o le banche dati gestionali non sono più sufficienti. Diventa necessario accedere e mettere in comunicazione tra loro diverse fonti, solo così gli amministratori e i decision maker pubblici possono ripensare strategicamente gli spazi urbani e migliorare concretamente la vita dei propri cittadini.
«Di più avrei potuto fare, specialmente nel campo statistico, se non ci fosse nel nostro Paese, e nei privati e negli enti morali, una tal quale ritrosia a confidare al dominio del pubblico, dati fatti e notizie.» Così scriveva Cesare Battisti nel 1898 e così inizia il suo speech Maurizio Napolitano parlando di open data, di trasparenza e collaborazione. È trascorso più di un secolo dalle parole di Battisti, ma il problema della partecipazione e accesso ai dati resta il medesimo. Eppure, la condivisione del dato all’interno dello spazio urbano è oggi fondamentale, come sottolinea Carlo Rossi Chauvenet: «In CRCLEX abbiamo lanciato un progetto per capire come il dato dei soggetti pubblici potesse essere collegato con i dati di privati. Siamo partiti dalla domanda di dati per provare a strutturare una visione circolare. Non più “che dati hai?” ma “di che dati hai bisogno?”. Abbiamo mappato i bisogni, definendo meglio l’offerta di servizi. Ci siamo resi conto che il dato è un attivatore dell’economia circolare all’interno della città, naturalmente se c’è collaborazione e condivisione tra le parti.».
L’interoperabilità tra banche dati e agenzie diverse, per quanto complesso, spesso macchinoso e foriero di ansie, soprattutto in merito alla privacy, vista più come un limite che, come elemento abilitante, è però l’unica strategia vincente per una città intelligente. Lo dimostra il caso del Comune di Cremona, raccontato dall’Assessore Maurizio Manzi: «Abbiamo deciso di sfruttare i dati in modo più strutturato, in un lavoro di arricchimento con agenzie esterne. È stato più facile contrastare l’evasione, pianificare azioni di mobilità, prendere decisioni basate sui dati a nostra disposizione e indirizzare i cittadini verso i servizi di cui necessitano, come scuole o asili nido.»
La città predittiva e la digital twin
Nel nostro Paese il mercato dell’AI vale 380 milioni di euro, ma solo il 6% delle PMI ha avviato un progetto sull’intelligenza artificiale. Eppure, le città del futuro non possono crescere e prosperare senza di essa.
Lo spiega molto chiaramente Chiara Tacco, che prende in prestito dall’Antica Grecia due termini chiave, kybernḗtēs e diágnōsis. Il primo si riferisce al responsabile della flotta navale, il timoniere che navigava verso l’oracolo per conoscere il futuro, colui che per questa ragione spesso governava la città. Il secondo è l’abilità di conoscere in modo approfondito, guardando attraverso. L’intelligenza artificiale e le tecniche predittive ci consentono, quindi, di ipotizzare soluzioni innovative a problemi antichi e sono alla base della città predittiva, «una città che, utilizzando dati già raccolti in precedenza per altri scopi, li valorizza per migliorare la qualità della vita, la sicurezza, l’efficientamento di processi, i trasporti, la gestione dei rifiuti. Questa può basarsi anche sul concetto di digital twin, l’alter ego digitale della nostra città, che può essere semplice o complesso, può focalizzarsi su un singolo quartiere o su un’intera città.».
La tecnologia è pronta, e noi?
Se le complesse architetture che formano il cloud raramente costituiscono un problema per la sicurezza, almeno non quanto il modo in cui vengono presidiate; se più che l’apprendimento di competenze tecniche, quello che manca è una cultura e un alto livello di consapevolezza sugli usi e gli obiettivi della tecnologia; se gli algoritmi, così come le infrastrutture, sono pronti, il principale fattore di rischio resta l’uomo. Sembra paradossale, ma forse a ben vedere non così tanto.
Perché le smart cities diventino realtà, occorre infatti comunicare in modo adeguato, allenare conoscenza e consapevolezza, tanto nelle aziende, quanto nelle amministrazioni e tra i cittadini. Per questo serviranno data scientist, ingegneri meccanici ed energetici, sociologi, ma più di ogni altro ci sarà bisogno di ciberneti coraggiosi, perché i dati, come l’oracolo, solo se sapientemente interrogati possano mostrarci il futuro e migliorare il nostro presente.
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