Lo scorso 6 dicembre Balenciaga ha presentato la sua collezione autunno-inverno 2021 su “Afterworld: The Age of Tomorrow”. Probabilmente non è un nome familiare nel mondo della moda: si tratta di un videogioco open world ambientato nel 2031. Per l’occasione tutti gli avatar presenti in game erano vestiti con gli abiti della maison parigina.
Non è stato solo uno stratagemma estemporaneo per strizzare l’occhio alla Gen Z o ai fan dei videogiochi. Quello che ha fatto Balenciaga è perfettamente in linea con le tendenze di tutta l’industria, con la realtà virtuale pronta a ospitare le nuove sfilate post Covid. Per il 2021 Balenciaga ha programmato due pre-collezioni durante le settimane della moda tradizionali e le main collection a giugno e dicembre. Sarà una sola la collezione di alta moda a essere presentata con la classica sfilata. Il resto partirà tutto dal digitale.
Il primo grande vantaggio dato da una proposta in realtà virtuale è intuitivo, e riguarda la platea: rispetto al massimo di 700 ospiti di una sfilata classica, in una presentazione virtuale è possibile avere collegate in contemporanea decine di milioni di utenti.
Il fenomeno intercettato da Balenciaga è la gamification ed è una delle soluzioni più gettonate dall’intero comparto dall’arrivo della pandemia. Dopotutto, trovare strade alternative era assolutamente necessario: il coronavirus ha annullato le sfilate, ha fatto chiudere i negozi, ha azzerato gli eventi di massa.
Non potendo vestire persone in carne e ossa, si impianta lo stesso processo all’interno del videogioco, proponendo nuovi look per curare l’aspetto degli avatar
Gucci, ad esempio, ha messo in campo nuove esperienze di gaming: con la piattaforma Gucci Arcade è possibile giocare ai remake dei più classici titoli videoludici degli anni Settanta e Ottanta, in ambientazioni ovviamente rivisitate e ispirate ai motivi della maison fiorentina.
Burberry ha lanciato B-Bounce, un gioco in cui un cervo vestito con i capi del marchio deve saltare su tappeti elastici scansando nuvole di pioggia e neve che ne rallenteranno la salita.
La maison Valentino invece ha proposto un progetto molto simile a quello di Balenciaga: venti look disegnanti da Pier Paolo Piccioli per gli avatar di “Animal Crossing: New Horizons”, il videogioco targato Nintendo giocabile su Switch che ha spopolato negli ultimi mesi del 2020.
Il concetto alla base della gamification è molto semplice: non potendo vestire persone in carne e ossa, si impianta lo stesso processo all’interno del videogioco, proponendo nuovi look per curare l’aspetto degli avatar.
E non è solo un modo per presentare i nuovi modelli, ma anche per vendere direttamente in game i capi, in versione digitale. Ad esempio, Fortnite, uno dei titoli più giocati al mondo, già nel 2018 aveva realizzato la maggior parte dei suoi ricavi (2,4 miliardi di dollari in totale) vendendo “skin” per avatar.
Questo ovviamente ha richiesto anche nuove competenze, know-how e abilità nell’industria della moda: sempre più spesso i game designer entrano a far parte dell’organico delle case di moda e in futuro potranno essere figure chiave del settore.
Sempre più spesso i game designer entrano a far parte dell’organico delle case di moda e in futuro potranno essere figure chiave del settore
Ma la gamification non è l’unica trasformazione della moda nell’anno della pandemia. Si è parlato ad esempio della svolta sostenibile del mercato, guidata dalle preferenze dei consumatori ma anche da una crescente consapevolezza degli sprechi e delle emissioni dell’industria.
E un altro trend è stata l’uscita di tanti film e serie tv a tema. Gucci, ad esempio, per presentare la sua nuova collezione a novembre aveva creato una miniserie di sette episodi – diretti dal regista Gus Van Sant – dal titolo “Ouverture of something that never”. Un episodio a sera, visibile sui canali social del brand, con l’attrice Silvia Calderoni tra le strade di Roma e ospiti d’eccezione come Billie Eilish a Harry Styles.
Lo scorso 7 dicembre, invece, una versione digitale di Donatella Versace era apparsa durante il festival virtuale “ComplexLand”, dove il marchio ha venduto 100 paia di sneaker solo ai partecipanti all’evento.
Gli eventi, di fatto, si sono trasferiti in digitale, modificando le regole del mercato. A settembre Burberry aveva collaborato con Twitch per una diretta streaming per presentare la nuova collezione del marchio. E Burberry è stata una delle prime maison a puntare sullo s-commerce. Non e-commerce: c’è la “s” di social. Fare acquisti su Facebook, Instagram, Whatsapp è un’opzione presente da molto tempo, ma a lungo è stata considerata solo un piccolo segmento di mercato, di certo non un canale su cui i grandi brand pensavano di dover investire per ridisegnare il proprio futuro.
Facebook, ad esempio, aveva iniziato a lavorare al suo portale di s-commerce già nel 2012, ma senza grande successo. Ma il primo lockdown del 2020 ha cambiato completamente lo scenario: l’aumento del 40 per cento dell’utilizzo di Facebook e Instagram, ha convinto gli sviluppatori del social network ad accelerare il lancio di Shops, il portale dello shopping virtuale che utilizza i tre brand principali della compagnia – Facebook, Instagram e WhatsApp – anche se al momento è accessibile solo negli Stati Uniti.
Rispetto all’e-commerce classico, l’s-commerce riabilita anche la conversazione e l’interazione sociale
Se i social sono un’idea intrigante per i grandi brand del fashion, lo sono anche per i piccoli designer indipendenti e i negozietti, che con la nuova piattaforma hanno l’opportunità di convertire i propri profili in negozi virtuali a costi molto ridotti rispetto a quelli fisici.
Rispetto all’e-commerce classico, lo s-commerce riabilita anche la conversazione e l’interazione sociale: si basa infatti sulla partecipazione attiva da parte dei clienti, sulla circolazione di informazioni relative a un prodotto, magari l’abbinamento di più capi di abbigliamento, la condivisione di articoli scritti dai membri delle comunità virtuali.
Ma non c’è solo Shops di Faebook, che comunque registra numeri sempre crescenti. A febbraio TikTok ha lanciato anche in Europa – dopo il successo degli Stati Uniti – la sua partnership con Shopify. Anche se va detto che TikTok e Facebook non sono competitor, in quanto intercettano fasce di utenti differenti: circa il 40 per cento delle persone presenti su TikTok non possiede account Facebook.
Ma soprattutto, grazie a questo accordo, le aziende europee che scelgono la piattaforma e-commerce Shopify per gestire il negozio online potranno mettere in vendita i propri prodotti con gli Shoppable Ads: i contenuti video che permettono di accedere direttamente allo shop online del brand.
A dare un’idea della portata del progetto ci ha pensato la stessa Shopify, attraverso un comunicato: «È un’opportunità unica per raggiungere l’enorme community globale di TikTok, che solo in Europa conta oltre 100 milioni di utenti attivi al mese, la cui crescita su tutte le principali fasce demografiche rende la piattaforma di video sharing la vetrina ideale per intercettare nuovi clienti e aumentare la notorietà del proprio brand, a prescindere dalla dimensione aziendale e dai prodotti o servizi offerti».