Una livrea gialla (colore simbolo della società), il nome di un toro (Aventador) e 740 cavalli di potenza per 350 chili di peso. Una scheggia su quattro ruote che porta la firma Lamborghini e che fa bella mostra nel parcheggio dello stabilimento di Sant’Agata Bolognese (Bologna). Accanto, le altre creazioni della casa automobilistica: Huracàn e Urus. Nomi che per gli appassionati di automobili fanno rima con velocità, lusso e attenzione per il dettaglio. Come la pelle tagliata, cucita e sellata (cioè incollata sui supporti) a mano da veri artigiani dentro la fabbrica. Insomma, gioielli del made in Italy. Gli stessi che dal 1963, anno di fondazione del marchio da parte di Ferruccio Lamborghini (che fino ad allora si era occupato solo di trattori), fanno gola a molti. Compresa l’Audi che nel 1998 acquistò la casa automobilistica bolognese per 100 miliardi di lire. Da allora è partito un processo di trasformazione che nel tempo ha fatto di Lamborghini in un chiaro esempio di industria 4.0. Anzi, di manifattura 4.0 come la chiamano da queste parti. Il tutto senza dimenticare l’aiuto arrivato da una politica industriale a livello nazionale che, a fronte di 80 milioni di euro pubblici d’investimento e un miliardo di fondi privati già accantonati per i prossimi 10 anni, è riuscita a trattenere in Italia la produzione della Urus (inizialmente destinata a un centro di produzione slovacco di proprietà di Audi) garantendo il continuo sviluppo tecnologico del sito.
Un’area di 80mila metri quadri su cui campeggia la scritta “Since We Made It Possibile” e che riserva subito una sorpresa: qui la linea di produzione non c’è. Ci sono delle intelaiature bianche, in metallo, che tengono tutto sospeso. Tutto cala dall’alto, dalle enormi “pinze” gialle che sollevano i telai delle auto ai grandi serbatoi da dove vengono iniettati i fluidi all’interno dei modelli. A terra non ci sono binari né rulli. Al loro posto, come piccoli aiutanti, si muovono i carrelli Agv (Automated guided vehicle), che spostano le auto da una stazione all’altra. Lo fanno con una precisione millimetrica grazie a un triplice sistema di guida: Gps, laser ed elettromagnetica. Un’innovazione che non è fine a se stessa, ma sottende un cambio di paradigma: il passaggio dal montaggio sequenziale al montaggio modulare. Un cambiamento operato secondo la parola d’ordine “flessibilità” e che prevede la capacità di intervenire su ogni stazione di lavoro con estrema facilità qualora si rendesse necessario aggiungere o togliere dei passaggi. Flessibilità che si riverbera anche sul prodotto stesso: le auto. Ogni modello, infatti, può essere personalizzato nei modi più curiosi: dall’imbottitura ai rivestimenti, passando per il colore della carrozzeria e la scelta degli optional. D’altronde, anche nell’industria 4.0 vige sempre l’adagio per cui “il cliente ha sempre ragione”. Oppure, detto in inglese: “customer is king”.
Nello stabilimento dell’Urus lavoreranno a regime 350 operai. La formazione avviene sia sulle macchine sia attraverso dei visori di realtà virtuale, presente in un’apposita stanza
A monitorare il tutto ci pensa il Mes, ossia Manufacturing execution system. Si tratta del grande software che regola, registra e controlla ogni singolo spostamento, operazione, processo. Lo stesso che comanda i robot utilizzati nelle fasi di assemblaggio gomito a gomito con l’operatore umano (e per questo definiti cobot). Non sono moltissimi e ce ne sono di almeno tre tipi: uno che stende il silicone sul parabrezza, prima che gli operai lo applichino con una manovra e degli aggiustamenti che ancora si preferisce affidare agli uomini. Uno che, muovendosi su un ulteriore carrellino, avvita la parte posteriore della carrozzeria al telaio, con una soluzione finora unica in Europa. E un terzo che prende gli pneumatici da uno scaffale e li predispone per il montaggio sull’auto, evitando che il peso ricada sui lavoratori. Soluzioni sofisticate che appaiono semplici grazie all’insieme di sensori che tengono traccia di ogni movimento facilitando il montaggio grazie alla loro capacità di riconoscere il pezzo giusto per lo spazio giusto. Basti pensare che grazie all’utilizzo diffuso dei sensori si è riusciti a passare dalla ventina di avvitatori precedentemente richiesti in alcune stazioni a uno solo, peraltro wireless. Il sistema riconosce le bussole e le viti e rende possibile solo gli accoppiamenti compatibili.
Nello stabilimento dell’Urus lavoreranno a regime (ora la produzione è ridotta e limitata a vetture per la fase di sviluppo) 350 operai. Per i nuovi inserimenti è previsto un percorso di formazione interno di almeno tre mesi per le stazioni più basilari e di sei mesi per quelle più delicate. La formazione avviene sia sulle macchine sia attraverso dei visori di realtà virtuale, presente in un’apposita stanza. La stessa tecnologia che ha anche permesso di ridurre drasticamente i tempi di costruzione degli impianti. Lo stabilimento è stato realizzato, sopra un ex terreno agricolo, in soli 12 mesi. Questo grazie al fatto che ogni spazio era stato progettato e visto visitamente in 3D attraverso i visori. Dettagli che hanno abbassato i tempi di attesa per le autorizzazioni a solo nove mesi, contro i 2 o 3 anni minimo che normalmente servono.