Quando, nel 2020, con lo scoppio della pandemia, ci siamo chiusi in casa, abbiamo cominciato a interrogarci anche sul senso del nostro lavoro, sul tempo dedicato alla nostra professione e sull’impatto nelle nostre vite. Da lì qualcosa è cambiato.
«Il Covid ha fatto da acceleratore nel discorso del benessere sul posto di lavoro, ma è ancora difficile parlarne. È come se la pandemia avesse tolto solo un primo strato di stigma. In realtà, ci portiamo dietro qualcosa che è complesso da eliminare in toto», dice la psicologa del lavoro e direttrice operativa di Mindwork Biancamaria Cavallini.
Cavallini è, insieme all’autrice Luna Esposito, la voce di “Troppo poco”, il podcast di Will in collaborazione con Mindwork che parla di benessere lavorativo, partendo dalle riflessioni dei lettori raccolte nella newsletter Chiaramente. «La salute mentale delle persone per molte aziende conta ancora troppo poco. Tutto questo ha a che fare con un aspetto legato anche alla cultura italiana, che è una cultura calda dove i problemi si risolvono parlandone in famiglia o con gli amici», dice Cavallini. «Nelle culture fredde, invece, è più normale chiedere aiuto esternamente». Inoltre, la psicologia è una professione giovane, nata molti anni dopo rispetto alla medicina e quindi, per alcuni, ancora difficile da accettare.
La salute mentale delle persone per molte aziende conta ancora troppo poco. Tutto questo ha a che fare con un aspetto legato anche alla cultura italiana, che è una cultura calda dove i problemi si risolvono parlandone in famiglia o con gli amici.
La pandemia ha avuto un impatto sul benessere psicologico di tantissime persone. «Ci siamo fermati e abbiamo visto che alcune cose potevano essere superflue», spiega la psicologa. «Ma quando siamo ripartiti ci è sembrato di andare a una velocità folle. In quei mesi abbiamo messo in pausa le nostre paure: non era più possibile fare un confronto con gli altri e sentirsi in ritardo perché eravamo tutti nella stessa situazione».
Il tempo è servito anche per ragionare sul proprio lavoro e sul peso delle ore passate lavorando, sui desideri, sul grado di soddisfazione. E da quelle riflessioni spesso sono derivate delle svolte, dei cambi di vita. «Chi, invece, si è reinserito nella stessa routine di prima ha visto una sbavatura».
Lo stato d’animo che si prova sul posto di lavoro e il benessere della vita privata non sono due compartimenti stagni e nettamente separati. Uno studio condotto da Ipsos a inizio 2023, in collaborazione con la piattaforma di psicologia online TherapyChat, ha evidenziato che il 46% dei lavoratori è convinto che il benessere psicologico sia influenzato dalla propria condizione lavorativa.
Molte persone, dopo la pandemia, hanno riletto il proprio contesto di lavoro e, quando si sono rese conto che non le faceva stare bene, hanno deciso di cambiare vita. Il bisogno di soddisfazione in quei casi è prevalso sull’aspirazione del posto fisso a qualsiasi costo.
«Su questo poggia il fenomeno delle grandi dimissioni. Anche se bisogna sempre tener conto che non ci deve essere una ricerca spasmodica del benessere», continua Cavallini. «Come se al primo accenno di malessere fosse necessario licenziarsi. In generale, deve essere una situazione che fa stare bene, ma possono esserci giornate no. Non possiamo pensare di eliminare completamente la sensazione di malessere».
Anche l’importanza che le aziende attribuiscono alla creazione di un ambiente di lavoro sano e costruttivo è cambiata dopo il Covid. «Molte hanno iniziato a lavorare con noi di Mindwork durante la pandemia, all’inizio la richiesta era legata al tamponare l’emergenza, ma poi sempre più datori di lavoro, in particolare nelle grandi attività, si sono resi conto della necessità di integrare servizi di benessere psicologico nell’offerta di lavoro», spiega Cavallini.
Un ruolo importante è giocato dall’aspetto economico, in particolare tra le generazioni più giovani. Secondo una ricerca di Adecco, lo stipendio rappresenta ancora un fattore determinante nella scelta di un lavoro, sia per gli uomini sia per le donne della Gen z. «Una persona su due, tra Generazione Z e Millennial, ha preoccupazioni legate ad arrivare a fine mese. Bisogna sempre tenere conto, però, che il rapporto che ognuno ha con il denaro è molto personale e che l’educazione finanziaria che abbiamo ricevuto può influenzare il nostro benessere», sostiene Cavallini.
I primi segnali che si verificano in chi vive in un luogo di lavoro non sano sono ansia e stress, «ma le situazioni sono molto diverse l’una dall’altra. È necessario indagare anche il motivo per cui non sono ambienti sani, potrebbe essere a causa di una leadership di un certo tipo, di informazioni non chiare, di discriminazioni e micro-aggressioni verbali. Spesso una delle conseguenze è sentirsi spezzati al lavoro rispetto al resto della propria vita, andare indossando una maschera, ma un conto è farlo volontariamente un altro è essere obbligati».
Ci sono poi la sensazione di overworking, che corrisponde al non riuscire a porre confini tra sé e il proprio lavoro, la fatica psicologica e fisica, ma anche il malessere che deriva da una banalizzazione di certe situazioni, come le discriminazioni.
Non bisogna dimenticare che la rete sociale è la più grande forma di mitigazione dello stress e questo discorso vale anche sul posto di lavoro.
In questi casi, la prima persona a cui rivolgersi è chi si occupa di risorse umane. Nel caso in cui non ci dovesse essere l’hr e il proprio capo non rispondesse alle sollecitazioni, l’aiuto può essere ricercato fuori dall’azienda in un professionista della salute psicologica. «Con un percorso – che può anche non essere breve in molti casi – è possibile che vengano forniti una chiave di lettura diversa e strumenti per gestire certe situazioni», spiega la psicologa. «Ma l’esito in alcuni casi può portare alle dimissioni. Anche colleghi e colleghe possono rappresentare un aiuto, non bisogna dimenticare che la rete sociale è la più grande forma di mitigazione dello stress e questo discorso vale anche sul posto di lavoro».