«Nella vita niente deve essere temuto, ma solo capito. È tempo di capire di più, in modo da temere di meno», insegnava Marie Curie.
Filosofa, tra le massime esperte di tematiche legate al rischio, Simona Morini è docente di “Teoria delle decisioni razionali e dei giochi” e “Filosofia della Scienza” presso la Facoltà di Design e Arti dell’Università IUAV di Venezia. Anche lei è convinta che la comprensione del rischio e della sua complessità, in un sistema sempre più interconnesso, sia cruciale. «Il rischio non va temuto, ma va affrontato», racconta. Ma per affrontarlo, «bisogna capire a fondo di cosa parliamo, quando parliamo di rischio».
Rischio è diventato una parola familiare, in queste settimane. Ma la riflessione sul rischio non è di oggi, né di ieri: viene da lontano. Al tempo stesso, questo concetto – e quello correlativo di assicurazione – alcuni studiosi lo fanno risalire al XIX secolo…
La parola stessa, “rischio”, è relativamente recente: è un termine legato alla nascita delle assicurazioni che, a loro volta, sono legate alla nascita della statistica che, a sua volta, è un’evoluzione del calcolo delle probabilità. Il termine “rischio” come lo conosciamo oggi si è andato diffondendo di pari passo con la “scienza dell’incerto”: prima la probabilità e poi la statistica. Quando questa scienza, nata nel Seicento, è arrivata a maturazione abbiamo imparato a gestire l’incertezza e, di conseguenza, a ridurre il rischio. Ma l’emergere del rischio è legato anche a una cultura legata al sorgere di una cultura sempre più democratica. Una cultura che si faceva carico del rischio per evitare che questo impattasse sulle condizioni di vita della maggioranza delle persone.
Il mondo è sempre stato rischioso, in modi e forme diverse. Abbiamo però maturato una sensibilità diversa nei confronti del rischio
Fino agli anni Cinquanta del Secolo scorso, le ricorrenze sui giornali e nei media in genere della parola “rischio” erano pochissime. Poche decine di migliaia. Oggi sono milioni le ricorrenze del termine “rischio”…
Questo significa che il rischio è diventato un fenomeno socialmente rilevante. Ulrich Beck, non a caso, ha spiegato che viviamo nella società globale del rischio. La questione che, a questo punto, si pone è: viviamo in un mondo più rischioso o percepiamo diversamente il rischio? In realtà non viviamo in un mondo più rischioso. Il mondo è sempre stato rischioso, in modi e forme diverse. Abbiamo una sensibilità diversa nei confronti del rischio.
Ci aiuta a capire “che cos’è ‘rischio'” oggi e come si è declinato in società tecnologicamente avanzate come la nostra?
Muta la percezione, ma muta anche la natura del rischio. I rischi di oggi sono in gran parte diversi da quelli del passato e il rischio tecnologico ne è un esempio. Il rischio tecnologico è diverso da quello naturale (terremoti, maremoti, cataclismi). Oggi abbiamo dei rischi apparentemente insignificanti che possono portare a conseguenze catastrofiche. Inoltre esistono strumenti che, anche solo potenzialmente, possono mettere a repentaglio l’esistenza stessa della vita sul nostro pianeta (pensiamo all’atomica). Questa è una realtà nuova, che richiede strumenti nuovi e un nuovo approccio al “minimo rischio”. Ci sono rischi con bassissime probabilità che si verifichino, ma poiché le conseguenze sarebbero catastrofiche anche quella minima probabilità diventa importante e va calcolata e considerata nelle nostre scelte.
È tempo di capire di più, in modo da temere di meno
Le tecnologie, inoltre, si diffondono con una rapidità sconosciuta al passato. Questa accelerazione nella diffusione delle tecnologie accelera e accresce anche i rischi connessi, ma le conseguenze di questa assunzione di rischio si potrebbero cogliere solo sul lungo periodo.
Oltre al fattore accelerazione, dobbiamo considerare che oramai i rischi sono su scala globale…
Questo fatto è stato molto ben evidenziato dall’ultima pandemia. Sul piano temporale: velocità di diffusione e relativa lentezza nella risposta. Sul piano spaziale: passaggio rapidissimo dal locale a globale. Per di più, rischi come la pandemia si sviluppano e si diffondono in ambienti di per sé complessi e iperconnessi. Le pandemie del passato erano devastanti, forse più di questa, ma le economie e i sistemi di vita erano meno interdipendenti.
Non possiamo applicare il calcolo delle probabilità ad ambienti non deterministici, al massimo possiamo capire dei trend
I sistemi complessi sono molto efficienti dal punto di vista economico, dell’innovazione, sociale e persino scientifico. Ma l’interconnessione fa sì che se qualcosa va storto, come nel caso del Coronavirus, crolla tutto il sistema. Si hanno delle discontinuità continue, perché i fenomeni sono non lineari: l’eccezione diventa la regola.
Dal punto di vista economico, però, ci muoviamo come se avessimo a che fare con fenomeni lineari…
Invece viviamo costantemente nell’eccezione. Come ha insegnato lo scopritore della geometria frattale Benoît Mandelbrot, nel suo libro The (Mis)Behavior of Markets: A Fractal View of Risk, Ruin, and Reward, ci affidiamo a modelli economici che non descrivono più i sistemi complessi in cui ci troviamo. Modelli che funzionano a livello locale ma, a livello locale, se la globalità è complessa e quindi inteconnessa i modelli dell’economia non funzionano più perché cambia la scala.
Crede possano esistere un’educazione o una cultura del rischio?
Proprio per quello che ci ha insegnato Mandelbrot devo concluderne che abbiamo bisogno di strumenti nuovi. Ne usciremo? Riusciremo a trovarli? Sì, perché con la nostra intelligenza, il supporto dell’Intelligenza Artificiale e con lo studio dei sistemi non lineari col tempo riusciremo a elaborare modelli unificati per trattare questi fenomei. Adesso, però, non li abbiamo.
Ha ragione Ulrich Beck…
Ha ragione a dire che affrontiamo dei rischi nuovi che ci mettono in una condizione in un certo modo “pre-scientifica” di comprensione: non possiamo applicare il calcolo delle probabilità a ambienti non deterministici, al massimo possiamo capire dei trend. Ma i trend si capiscono meglio con il machine learning, l’Ai, i Big Data: campi nuovi, aperti, su cui dobbiamo iniziare a creare una cultura comune.
Come?
Partendo dalle scuole per formare nuovi strumenti e nuovi cittadini capaci di affrontare la complessità, innanzitutto capendola.