Si può fondare una banca e chiamarla “Etica”, presiedere una società di gestione del risparmio anch’essa battezzata “Etica” e poi scrivere un libro che si intitola “I soldi danno la felicità” (Chiarelettere, 182 pagine, 16 euro, scritto con la collaborazione di Cristina Diana Bargu), mettendo nella quarta di copertina una frase dell’ex presidente contadino dell’Uruguay Pepe Mujica che recita “…la felicità non è poter possedere sempre più beni, ma avere il tempo per fare quello che ci piace, per coltivare le relazioni umane, per stare con i nostri figli e con gli amici”? A tentare, anzi a riuscire nell’impresa è un stato un banchiere sui generis come Ugo Biggeri, una laurea in Fisica, fiorentino, classe 1966: per intenderci uno che da anni vive in una comunità di famiglie sull’Appennino toscano. Biggeri firma un libro-vademecum per la sopravvivenza finanziaria. Un testo che intende essere un corso semiserio di finanza alla portata di tutti, ma anche una piccola guida per un uso dei soldi che generi felicità.
Il sottotitolo del libro del libro recita “corso semiserio di sopravvivenza finanziaria”, visto il suo percorso professionale e umano forse è semiserio anche il titolo o crede davvero che i soldi diano la felicità?
Attenzione però, dire che i soldi non danno la felicità sarebbe altrettanto paradossale. Naturalmente la mia è una provocazione. Intorno al denaro ci sono alcuni miti che vanno sfatati, uno è quello che non diano la felicità.
Veniamo a un punto però…
Diciamo allora che i soldi possono dare la felicità, ma non è automatico che la diano. Io, come molti altri, se mi guardo indietro e penso ai giorni più felici della mia vita, i soldi non c’entrano niente. Però è indubbio che siano utili. Se devo comprarmi la casa, per esempio, i soldi per il mutuo sono necessari. E questo è banale.
I soldi attraverso il fisco sono un facile strumento di redistribuzione della ricchezza e quindi una delle fondamenta degli assetti democratici
Un esempio meno scontato?
I soldi attraverso il fisco sono un facile strumento di redistribuzione della ricchezza e quindi una delle fondamenta degli assetti democratici. Senza il denaro la perequazione sociale sarebbe molto più complicata (come ci insegna la storia).
Il primo personaggio citato nel libro (nella prefazione di Massimo cirri e Sara Zambotti) è Enrico Cuccia, il più importante banchiere italiano della storia, ma anche l’eminenza grigia della finanza nazionale, altro che Banca Etica…
Guardi, non l’ho mai conosciuto, è un personaggio che sento molto lontano da me, non ho mai fatto, né farei finanza come l’ha fatta lui, ma sicuramente era una persona che prendeva molto sul serio la finanza e il suo ruolo in particolare in tema di riservatezza. È una persona che ha molto da insegnare.
In soldoni: una banca utilizza soldi altrui per fare profitti propri. Può davvero esistere una banca etica?
Che una banca abbia come unico obiettivo di fare ricchi i banchieri e di massimizzare i profitti è una convinzione radicatissima, ma assolutamente parziale. La storia è costellata da banche che hanno fatto grandi cose in campo sociale, penso al credito cooperativo o alle banche popolari e ancora più indietro ai Monti di Pietà. Tenga poi conto che la nostra Costituzione intende il risparmio e il credito come beni comuni. Le banche possono essere “cattive”, ma possono fare anche il bene della comunità. Dipende dalle politiche di allocazione del credito.
Le giovani generazioni hanno un rapporto diverso con il denaro rispetto a quello dei loro genitori?
Penso di sì, per esempio guardano con molta meno ansia al posto fisso e richiedono attenzioni sociali e ambientali in modo molto diffuso. Se queste attenzioni fossero convogliate in modo mirato nella scelta di quale istituto preferire per aprire il proprio conto corrente, ecco questa sarebbe una leva formidabile per cambiare l’industria del credito.
Il suo libro è anche un piccolo corso alla finanza. Ne approfitto per qualche chiarimento. Le criptovalute che piacciono tanto a Elon Musk e poco a Mario Draghi sono una cosa positiva o una cosa negativa?
Quando si dice criptovalute, il 90% delle persone pensa ai bitcoin, che sono una “boiata” pazzesca, perché sono costruiti per consumare una montagna di energia, vengono usati per transazioni opache e per aggirare le norme antiriciclaggio (anche se godono di un’ottima stampa). In realtà però le criptovalute possono essere un’ottima soluzione perché per esempio, grazie alla blockchain, sono completamente tracciabili.
Altra questione: tutti concordi nel dire che i paradisi fiscali sono pericolosi, ma chiuderli sembra impossibile…
C’è un tema a monte: quello della semplificazione e della coerenza dei regolamenti bancari a livello internazionale. È ovvio che più un sistema è semplice, più è capace di attrarre finanza. Il problema nasce quando alla semplificazione vengono affiancate norme che consentono il meccanismo delle scatole cinesi. I paradisi fiscali per l’appunto sono quei luoghi dove è facile e poco costoso aprire e chiudere società e che al contempo garantiscono l’opacità dei trasferimenti di denaro. L’ipocrisia è che il modo per stroncarli c’è e sarebbe facile: introdurre a livello internazionale il country by country report che si basa su un semplice principio, pagare le tasse a seconda del valore aggiunto che generi in ogni Paese. Perché non si fa? Perché manca la volontà politica.