Lo slogan “lavorare meno, lavorare tutti” sembra essere tornato in auge come strumento per contrastare la disoccupazione post-Covid, “redistribuendo” il lavoro che manca.
E anche in Italia, il tema è tornato nel dibattito pubblico, portando all’inserimento, nel decreto rilancio, del cosiddetto Fondo Nuove Competenze, che permette alle aziende di dedicare alla formazione una parte delle ore lavorative, con i costi a carico dello Stato. Non solo. A gennaio 2020, prima della emergenza Covid, il Partito democratico ha depositato alla Camera una proposta di legge (numero 2327) che mira a redistruire il lavoro in quattro modi diversi: contratti a tempo indeterminato meno costosi fino a 30 ore a settimana, incentivi fiscali per i part-time volontari, part-time diffuso nella pubblica amministrazione, penalizzazione fiscale per le ore di straordinario oltre una certa soglia. La stima è che queste misure potrebbero portare a 750mila occupati in più all’anno per un costo di 2,8 miliardi a regime. Il tutto, chiaramente, accompagnato da una riduzione delle retribuzioni.
E con quello che si prospetta come un autunno caldo alle porte, con diverse incognite sulla tenuta occupazionale, la proposta è tornata d’attualità. La logica è: anziché lasciare fuori le persone dal mercato del lavoro, meglio spacchettare l’orario. Evitando il contrasto tra aree con tassi di straordinario alte da una parte e buchi occupazionali dall’altra.
E lo stesso presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, è uno dei maggiori sostenitori della riduzione dell’orario lavorativo come leva per ridistribuire ricchezza e aumentare l’occupazione.
Di riduzione dell’orario di lavoro settimanale si parla anche in Gran Bretagna. Dove un gruppo di parlamentari ha proposto al cancelliere dello Scacchiere Rishi Sunak la possibilità di una settimana lavorativa di quattro giorni in modo da contrastare l’aumento dei tassi di disoccupazione causa Covid. Con una lettera inviata a Sunak, i firmatari (tra cui l’ex cancelliere John McDonnell) sostengono che una soluzione del genere potrebbe redistribuire il lavoro in questo momento di crisi. Un’idea che aleggia da un po’ nel dibattito inglese (McDonnell l’aveva proposta anche nel 2019), ma che con l’emergenza ha ritrovato slancio.
I firmatari spiegano nella lettera che la settimana lavorativa di quattro giorni apporterebbe molteplici benefici alla società, all’ambiente, alla democrazia e all’economia, garantendo anche una maggiore produttività grazie al migliore benessere psicofisico dei lavoratori.
La proposta inglese arriva dopo che anche la neo-presidente finlandese Sanna Marin in campagna elettorale aveva menzionato già l’idea di ridurre la settimana lavorativa a quattro giorni, di sei ore ciascuno. Una riduzione di circa il 40% rispetto alla settimana lavorativa italiana. «Le persone si meritano di passare più tempo con i propri familiari, coi propri cari, e di occuparsi di altre cose come le attività culturali», aveva detto. Una volta assunto il ruolo di prima ministra, Marin non ha più menzionato la proposta, salvo però tornarci proprio in questi mesi di emergenza, sostenendo che potrebbe essere una risposta utile contro la crisi occupazionale dovuta alla pandemia.
L’idea di ridurre la settimana lavorativa non è nuova nel dibattito pubblico del mondo occidentale. E con le nuove tecnologie e le diffuse possibilità di smart working, la proposta non è più un tabù. Ma se alcune aziende hanno avviato delle fasi sperimentali in cui hanno diminuito i giorni di lavoro, ottenendo un notevole aumento di produttività, allo stesso tempo alcuni studi mettono in guardia rispetto al rischio che la giornata lavorativa, in questo modo, possa diventare molto più stressante.
L’opinione pubblica è divisa. I favorevoli puntano sul concetto che una ripartizione diversa del lavoro e la riduzione delle ore lavorate da un singole operatore permetterebbero di aumentare la forza lavoro, anche a parità di salario. Inoltre, la diminuzione in quantità corrisponderebbe a un aumento in qualità. Ma per i detrattori, “lavorare meno, lavorare tutti”, a parità di salario, comporterebbe solo un aumento dei costi, con un conseguente calo per l’occupazione.
Dalla teoria alla pratica, però, quando si mette piede in fabbrica le cose potrebbero essere più complicate. Soprattutto se i ritmi di produzione richiedono turni in ciclo continuo. «Nell’arco di 24 ore, ci sono tre turni che fanno otto ore ciascuno. sette giorni su sette. Fra un turno e l’altro c’è un tempo tecnico per il passaggio delle informazioni, a cui si aggiungono la pausa mensa e due altre pause da 15 minuti per tutti gli altri bisogni. Un totale di circa un’ora e mezza di lavoro in meno», ci spiega Maddalena Cairoli, production plant manager presso un’azienda di produzione chimico-farmaceutica in Veneto.
E non è una questione di difficoltà del task assegnato: «Anche il lavoro più semplice ha bisogno di indicazioni», ricorda Cairoli. Possibile immaginare, quindi, all’interno di realtà produttive di questo tipo, un approccio che consideri un diversa organizzazione temporale? «La questione diventa l’organizzazione del lavoro e il rispetto degli standard di qualità del lavoro. Anche pensando di fare turni di lavoro da quattro ore, rimangono dei tempi tecnici e fisiologici da considerare. Perché ci sono vari pro e contro di una simile organizzazione, ma pensare di avere solo un weekend in famiglia una volta ogni sei settimane, alla fine può essere logorante».
Il dibattito è aperto. La prima ministra scozzese, Nicola Sturgeon, ha detto che proposte come quella della settimana lavorativa di quattro giorni «non sono più cose di cui dovremmo semplicemente parlare». È arrivato il momento di passare dalla teoria alla pratica?
Un’azienda del vicentino ha provato a ridurre la saturazione del 10% riscontrando un bisogno del +12,5% di ore lavorative. Ossia, un lavoratore ogni otto. Da qui si potrebbe partire per una nuova impostazione
Per questo, la fase di contrattazione dei carichi di lavoro diventa un compito essenziale. «Dal 2009 in avanti stiamo assistendo a un aumento della cultura della lean production. Attraverso il nostro Osservatorio alla Camera del Lavoro di Milano, abbiamo monitorato diverse aziende per cui la tecnologia e il digitale stanno diventando una leva sempre più importante per la standardizzazione dei processi e il recupero di tempo. Per questo c’è bisogno di riprendere il confronto, anche con il supporto del Governo, per trovare il giusto modello», afferma Marcello Scipioni, responsabile dipartimento innovazione e territorio Cgil Milano. «I lavoratori italiani sono fra i più impegnati al mondo, con punte che toccano il 90% dei livelli di saturazione dell’orario lavorativo», ricorda Scipioni.
Performance che in alcune aree del Paese, soprattutto al Nord, fanno raggiungere alle imprese gli standard europei. Peccato che i numeri aggregati tratteggino una situazione non così positiva: siamo terz’ultimi per efficienza tra i 28 membri dell’Unione Europea e 90esimi su 141 Paesi censiti al mondo secondo il Global Competitiveness Report 2019-2020 pubblicato dal World Economic Forum. «Un’azienda del vicentino ha provato a ridurre la saturazione del 10% riscontrando un bisogno del +12,5% di ore lavorative. Ossia, un lavoratore ogni otto. Da qui si potrebbe partire per una nuova impostazione», conclude Scipioni.
Possibile farlo in un panorama economico in difficoltà? «Diversi studi hanno dimostrato che la crescita economica non proviene da un aumento della quantità di lavoro, ma piuttosto da un aumento della sua qualità intrinseca. Al momento l’Italia, però, assomiglia più al Messico che ai paesi Scandinavi», afferma il giuslavorista Lorenzo Gelmi.
A giocare un ruolo anche la componente culturale: «Per molto tempo, a Milano, uscire prima delle otto ore era una macchia. Ora i Millennial stanno rivoluzionando questo aspetto con maggiore attenzione alla qualità del tempo libero. Se il mainstream è quello di un noto adagio “lavorare tanto e fatturare di più”, sta emergendo un nuovo approccio». L’obiettivo ora, dopo l’esperienza forzata dello smart working, è quello di «valorizzare la positività di questo strumento che rappresenta una delle pochissime istituzioni non conflittuali fra datore di lavoro e dipendente, in cui entrambi possono trovare una transazione win-win».