«L'armonia del mondo si manifesta nella forma e nel numero, e il cuore e l'anima e tutta la poesia della filosofia naturale si incarnano nel concetto di bellezza matematica», scriveva nel 1917 il matematico e biologo inglese D’Arcy W. Thompson in Crescita e forma. Cento anni dopo, a tradurre in pratica queste parole ci sta pensando il design generativo. Ovvero, quel settore della progettazione che utilizza algoritmi e intelligenza artificiale per processare parametri matematici e geometrici complessi al fine di ottenere un modello digitale della soluzione che si stava cercando. «Per far capire di cosa sto parlando, spesso utilizzo la metafora dello stormo», racconta Giorgio Buratti, professore di modellazione digitale dello spazio al Politecnico di Milano. «La forma di uno stormo di uccelli in volo emerge dalla distanza e dalla posizione che ogni uccello mantiene rispetto al suo vicino. Queste distanze e queste posizioni – continua Buratti – non sono altro che i parametri che un designer inserisce all’interno di un software al fine di ottenere una forma».
Dalle ali degli aerei, alle protesi biomedicali passando per la texture di un particolare tessuto o la realizzazione di una particolare soluzione architettonica, i campi di applicazione del design generativo sono pressoché infiniti. Eppure, gli spettatori di questa piccola rivoluzione sono una sparuta minoranza di ingegneri, designer e architetti che non hanno paura di abbandonare il classico e tradizionale schizzo di carta per affidarsi alla progettazione digitale. Una comunità che ruota attorno a software come Grasshoper (estensione di Rhino), Autodesk Within, Fusion 360, eccetera. Nomi che ai più non dicono niente, ma che permettono di trasformare in realtà un progetto virtuale grazie alla possibilità di interfacciarsi direttamente con una stampante 3D o una macchina a controllo numerico. «Il design generativo è strettamente legato a sistemi di progettazione rapida. Nel 2002, quando realizzai la mia prima mostra, in Italia c’erano solo due service di stampaggio 3D. Ora le cose sono cambiate e siamo di fronte a un moltiplicatore di possibilità che prima non c’era», racconta Marco Maggioni, professore allo Ied di Milano.
In alcuni licei sono già partiti degli insegnamenti di design computazionale. L’obiettivo è, infatti, quello di costruire una certa forma mentis che ragioni in modo logico per risolvere i problemi
Per riuscire a padroneggiare questo sistema di progettazione, però, bisogna fare uno scatto mentale: non pensare più alla forma, ma selezionare i corretti parametri da utilizzare e da cui la forma emerge. Un processo che ha bisogno di una buona dose di matematica e geometria. «La curva di apprendimento può essere ostica all’inizio – conferma Buratti – perché se è vero che il calcolo lo fa il pc, siamo noi a inserire i dati iniziali e se non lo facciamo al meglio è difficile andare avanti. Funziona un po’ come gli appuntamenti. Se devi incontrare una persona le devi dare delle indicazioni: ci troviamo lì alla tal ora e per arrivarci devi fare questo percorso. L’insieme di queste indicazioni è l’algoritmo che si utilizza per dare avvio al progetto che avevamo in mente». L’importante, come in tutti gli appuntamenti, è non essere mai banali. «Attualmente vedo un certo abuso di questi software», rivela Maggioni. «Se manca un percorso speculativo e un obiettivo ben preciso si rischia uno sterile ripetersi di forme già viste».
Per questo, prima ancora che delle competenze scientifiche, le caratteristiche più importanti per avvicinarsi a questa pratica sono la curiosità, la volontà di sperimentare e la predisposizione alla ricerca approfondita. Il tutto a corredo di un percorso di formazione che, per chi studia design all’università, prevede già la conoscenza dei materiali e della loro trasformazione, le regole di modellazione e le tecniche di disegno. E in questo senso, qualcosa anche in Italia si sta muovendo: «In alcuni licei sono già partiti degli insegnamenti di design computazionale. Un aspetto positivo se si pensa al nostro Paese secondo l’adagio per cui siamo tutti santi, poeti e navigatori. L’obiettivo è, infatti, quello di costruire una certa forma mentis che ragioni in modo logico per risolvere i problemi», spiega Buratti.
Con il design generativo, per esempio, è stato disegnato da General Electric un motore d’aereo. Il suo predecessore era composto da diciannove pezzi. Questo, stampato in 3D, è un pezzo unico e pesa un terzo dell’originale. Allo stesso modo, Airbus ha progettato il pannello che separa la parte di cabina in cui operano hostess e steward e quella in cui si siedono i passeggeri. Risultato? La nuova lastra pesa il 55% in meno dell’originale. E i committenti ringraziano per il risparmio. Insomma, là dove c’è complessità, il design generativo offre soluzioni all’avanguardia che altrimenti non riuscirebbero a trovare posto su un foglio di carta.
Gli algoritmi ruberanno il lavoro ai designer? C'è chi lo teme, e chi invece è convinto non accadrà: «Il design generativo è una rivoluzione invisibile: migliora la qualità del progetto, l’efficienza e le prestazioni a tutti i livelli perché toglie materiale da un prodotto, generando infine varianti, spiega Stan Przybylinski, vicepresidente della ricerca di CimData, una società di consulenza americana. Ma il concept e la forma saranno sempre appannaggio del designer, che sceglierà tra infinite varianti: «All’interno la moka la fa il computer, all’esterno la fa il progettista», spiega. Niente più che un aiuto a fare meglio insomma. Fossero tutte così, le rivoluzioni.