Che cos’è un artigiano? Perché, tutti, in qualche modo, anche nei contesti più evoluti dell’ICT o dell’industria 4.0 abbiamo a che fare con il sapere, ancor prima che con le tecnicalità di questo fare dal “futuro antico”?
Richard Sennett, sociologo della London School of Economics, autore di libri importanti e cruciali sul mondo del lavoro e sulle trasformazioni del nuovo capitalismo, è chiaro. Se diamo al termine artigiano (nell’accezione inglese di craftman) il senso ampio di lavoratore tecnico, allora «l’artigiano rappresenta in ciascuno di noi il desiderio di fare bene una cosa». Non solo, oltre che bene quel desiderio ci spinge a operare «concretamente per la cosa in se stessa». «Farla non basta, farla bene è necessario».
Lavorare bene
Questo sapere artigiano si può dunque condensare in una semplicissima formula: aver cura di ciò che si fa. «La tecnologia più avanzata con i suoi sviluppi rispecchia anche il modello di questo lavoro tecnico», spiega Sennett. Con un problema emergente: «Nel concreto del lavoro, le persone aspirano a questo “fare bene” e a essere nel senso che abbiamo detto “bravi artigiani”». Artigiani anche del e nel digitale. E qui sorge il problema, anzi la scissione profonda che attraversa le società globali: da un lato le aspirazioni e il fare mossi da quel desiderio, dall’altro una questione “istituzionale” che tende a ignorare quelle aspirazioni.
Il sapere artigiano è questione di legami. Legami di mutualità, apprendimento, cooperazione, collaborazione: un interscambio continuo di competenze dialogiche
Le istituzioni sociali, spiega Sennett, devono fare uno sforzo per evitare che «chi aspira a essere un buon artigiano nel senso ideale del termine si senta frustrato o incompreso». Questo accade quando, istituzionalmente, «si ignora il senso del fare artigiano e si finisce col non proporsi il fine di avere lavoratori felici».
Siamo davanti a una nuova visione del lavoro nel suo insieme, non limitata a categorie. Se si ignora questo e non si capisce la lezione storica – dal Rinascimento a oggi – impartita dalla tradizione artigiana, accade qualcosa. Cosa? Accade che «se l’impegno materiale viene svuotato di senso, il lavoratore ripiega nel privato e viene favorita la proiezione mentale su un futuro mai prossimo, che forse non arriverà mai, rispetto a concreto attuale». In altri termini: i parametri qualitativi del lavoro scindono la progettazione dall’esecuzione. E inevitabilmente si abbassano e degradano. Sennett aveva in qualche modo intravisto il pericolo in un suo lavoro degli anni Ottanta, significativamente titolato Il declino dell’uomo pubblico.
Davanti a questo ripiegare del senso nella sfera dell’intimità, il sapere artigiano può rappresentare un antidoto per tutti? «Homo faber e homo sapiens, l’uomo che fa e l’uomo che pensa – racconta Sennett – non sono scissi, ma uniti. Nel campo delle nuove professioni questo diventa addirittura eclatante. Ma la storia del sapere e del fare artigiano ha da insegnare ad ognuno di noi, in particolare nel rapporto fra abilità, apprendimento e immaginazione».
Oltre la competizione
Il sapere artigiano è questione di legami. Legami di mutualità, apprendimento, cooperazione, collaborazione: un interscambio continuo di ciò che Sennett chiama «competenze dialogiche». Queste competenze, nel mondo di un lavoro che si vuole qualitativamente alto e altro rispetto a certe derive, sono cruciali. Ma sono anche messe sotto scacco. Da cosa? Sennett è chiaro sul punto: «Dalla minaccia della competizione. Alla cooperazione, che è un modo di stare nella complessità, la competizione sostituisce opposizioni frontali binarie – noi/loro – che riducono quella complessità, favorendo sentimenti di risentimento e rancore che dalla sfera lavorativa si proiettano su tutte le altre». Un’altra minaccia è la dequalificazione delle competenze, favorita da certe dinamiche del sistema, che anziché aiutare le aziende a uscire dalla crisi, proiettano quella crisi con tutti i suoi conflitti al loro interno. «Il mondo del lavoro deve essere il mondo dei legami, non della loro rottura attraverso moltiplicatori di risentimento».
Dobbiamo ridare dignità (e pensiero) al lavoro, a tutto il lavoro
Etica nel lavoro
Per questo, Sennett propone una sorta di etica per il lavoro basata sull’orgoglio per le proprie qualità e per le qualità acquisite. Un’etica del ben fare, del ben lavorare, ma anche del «maturare la convinzione che la bravura, per non essere mera ripetizione o imitazione, deve evolvere. Deve avere un altro tempo, un tempo che permetta alla tecnicalità, al sapere, di radicarsi in un fare: deve diventare abilità personale».
Per questo, conclude Sennett, dobbiamo ridare dignità (e pensiero) al lavoro, a tutto il lavoro. A partire da quello manuale, che è stato sottoposto negli scorsi decenni a un processo di continua dequalificazione ideale, non solo materiale, fino alle nuove professioni orientate al digitale. Recuperare senso – e orgoglio – del fare è la chiave di volta per un futuro concreto e un presente capace di visione.