C’era una volta il bilancio sociale, o relazione di sostenibilità: un bel librone in cui le imprese responsabili rendicontavano il loro impatto sul contesto sociale e ambientale, davano conto delle proprie politiche nei confronti dei dipendenti, fornivano informazioni sul rapporto con clienti e fornitori e così via. Un plico sicuramente virtuoso, ma con una grossa pecca: non era (e non è) obbligatorio, nessuno lo controlla davvero, nessuno lo certifica e, in sostanza, poteva (e può) dire quello che vuole perché anche se mentisse, non succederebbe niente.
Le cose stanno però per cambiare, e piuttosto in fretta. Poco meno di un anno fa, infatti, il Parlamento italiano ha approvato il decreto legislativo 30 dicembre 2016, n. 254 con cui il nostro Paese recepisce e attua la Direttiva europea 2014/95/UE che, pur senza mandare ufficialmente in pensione il bilancio sociale, obbliga dal 2018 un certo tipo di imprese a pubblicare un documento molto più preciso e vincolante: una “Dichiarazione di carattere non finanziario” sulle politiche messe in atto dall’impresa stessa riguardo a temi «ambientali, sociali, attinenti al personale, al rispetto dei diritti umani, alla lotta contro la corruzione attiva e passiva». Con alcuni dettagli da non trascurare: abolita la fuffa, la Dichiarazione è obbligatoria, deve essere sottoscritta dal CdA e controllata da un ente revisore esterno, depositata presso il registro delle imprese e, se non veritiera, fa scattare sanzioni importanti.
Ma andiamo con ordine. Innanzitutto, il nuovo documento non è richiesto a tutte le imprese, ma solo a quelle con determinate caratteristiche. Ricadono nel perimetro dell’obbligo, infatti, solo i cosiddetti EIPR (enti di interesse pubblico rilevanti così come definiti dall’art. 16 del decreto legislativo n. 39/2010), ovvero le banche, le assicurazioni e le imprese di riassicurazione oltre alle società italiane emittenti valori mobiliari ammessi alle negoziazioni in un mercato regolamentato italiano o dell’Unione Europea (cioè quotate in Borsa). Inoltre, tali enti devono avere precisi requisiti dimensionali: più di 500 dipendenti e un totale dello stato patrimoniale di almeno 20 milioni di euro, oppure un totale dei ricavi netti delle vendite o delle prestazioni di almeno 40 milioni.
La normativa riguarda le grandi imprese, ma le sue ricadute investono potenzialmente quasi tutte le pmi italiane.
Quanto al contenuto della Dichiarazione, anche qui ci sono novità. Non si tratta, infatti, di raccontare genericamente cosa l’azienda fa per rispettare l’ambiente o i diritti umani; la legge impone di far comprendere a tutti l’attività dell’impresa descrivendo i «principali rischi, generati o subiti, connessi ai temi socio-ambientali e che derivano dalle attività di impresa», il modello organizzativo e gestionale, compresa la prevenzione dei reati di corruzione; la gestione degli impatti dell’attività imprenditoriale e i risultati conseguiti da tali politiche. Tutte le informazioni riportate, inoltre, devono essere fornite con precisione e rispettando standard di rendicontazione emanati da autorevoli organismi sovranazionali; se per caso un’azienda non possa o non voglia adottare specifiche politiche riguardo una delle tematiche socio-ambientali che si ritengono rilevanti, dovrà, in base al noto principio del “comply or explain”, spiegare la sua scelta «in maniera chiara e articolata».
Un altro punto qualificante della nuova normativa riguarda la responsabilità che deriva agli EIPR in caso di dichiarazioni non corrette o addirittura mendaci. Al contrario delle relazioni di sostenibilità che molte aziende pubblicavano fino a pochi mesi fa, questa Dichiarazione chiama in causa direttamente i membri del CdA, che devono garantire che la relazione sia redatta in conformità a quanto previsto dalla legge, mentre il collegio sindacale deve vigilare sull’osservanza della normativa, e darne conto nella relazione annuale all’assemblea dei soci; inoltre, il documento dovrà essere controllato da una società di revisione esterna che ne asseveri la conformità.
«Basta questo per far capire che cambieranno molte cose all’interno dei processi aziendali, e non solo degli enti interessati dalle nuove norme», spiega Giovanni Stiz, consulente di Seneca-Social Environmental Ethical Consulting and Auditing. «Anche perché dobbiamo considerare che quando si parla dell’attività dell’impresa, di prodotti e servizi, nella Dichiarazione andranno riportate informazioni che riguardano anche le catene di fornitura e di subappalto, determinando una ricaduta verso tutta la filiera che potenzialmente riguarda quasi tutte le pmi italiane». Per chi sarà sorpreso a fornire informazioni non corrette – tutte le Dichiarazioni, va ricordato, saranno pubblicate online sui siti delle imprese che le redigono e anche su quello della Consob – scatteranno pesanti sanzioni, che oscillano tra un minimo di 20mila a un massimo di 150mila euro. Ce n’è abbastanza per poter affermare che una vera rivoluzione, in termini di trasparenza e accessibilità ai big data, è dietro l’angolo.