Pontremoli, borgo di circa 7mila abitanti nella Lunigiana, in provincia di Massa e Carrara, si trova in una delle tante aree interne italiane. Ma ha una particolarità: a dispetto della tendenza media allo spopolamento di queste zone, da due anni a questa parte ha guadagnato 15 nuovi abitanti. Il segreto? Un progetto partito da alcuni amici uniti dall’amore per la loro terra e fatto proprio dall’associazione «Farfalle in cammino», che ha puntato sullo smart working come leva per incoraggiare le persone a tornare o trasferirsi in paese. «Se la Lunigiana non dà lavoro, il lavoro va in Lunigiana», è il loro slogan. E non si tratta solo di dare una casa o una scrivania a chi vuole spostarsi in un luogo lontano dal caos delle grandi città.
Da una parte c’è il lavoro, ma dall’altra c’è la socialità, lo stare insieme, le amicizie che si creano.
Damiano Novetti
«La grande intuizione è stata unire innovazione digitale e tradizione», afferma Damiano Novetti, uno degli ideatori del progetto. «Da una parte c’è il lavoro, ma dall’altra c’è la socialità, lo stare insieme, le amicizie che si creano. L’anno scorso abbiamo addirittura festeggiato il primo “smart-imonio”, un matrimonio tra uno dei fondatori dell’iniziativa e una ragazza arrivata qua per lo smartworking». Chi va ad abitare a Pontremoli, infatti, ha diritto a un «welcoming», un benvenuto in cui si viene introdotti alla cittadina e grazie a cui si instaura una relazione che continuerà per tutta la permanenza; molti dei giovani che decidono di rimanere restituiscono tanto al territorio, attraverso il volontariato e attività commerciali innovative.
Gli ostacoli da superare
«Lo smart working è sicuramente uno dei fattori che consentono di tornare o di stare nelle aree interne, rivitalizzandole», afferma Andrea Membretti, sociologo e membro del gruppo promotore dell’associazione Riabitare l’Italia, un progetto culturale ed editoriale che mira, col contributo di molti studiosi, a rivalorizzare le aree interne, «ma si tratta di una potenzialità che è ancora in larga parte inespressa. Proliferano piccole iniziative di giovani, che in parte restano e in parte ritornano, o nuovi abitanti che arrivano nei borghi per uno o due mesi, anche da altri Paesi; dall’altra parte c’è un lavoro da remoto che potremmo definire “d’élite”, di chi affitta baite o casali a 1.000 euro alla settimana. Quello che sembra mancare è la massa».
A impedire la completa realizzazione delle opportunità che lo smart working potrebbe offrire ai tanti luoghi a rischio spopolamento della Penisola, secondo l’esperto, due fattori. Prima di tutto le organizzazioni, soprattutto quelle pubbliche, non stanno più incentivando questa modalità lavorativa, ma, anzi, stanno facendo marcia indietro e riportando i dipendenti in ufficio. Il secondo problema è legato alla mancanza di connettività e infrastrutture, che andrebbero implementate.
La persona che svolge un impiego nella sua abitazione non è un reietto, non è qualcuno tagliato fuori, ma è addirittura un individuo che contribuisce a rigenerare il territorio in cui vive.
Andrea Membretti
Eppure, se ci fossero gli investimenti, il lavoro da remoto – almeno per un paio di giorni alla settimana – potrebbe costituire una soluzione non solo per ripopolare le aree interne e migliorare la qualità di vita delle persone, ma anche per diminuire l’impatto ambientale dovuto agli spostamenti di migliaia e migliaia di pendolari in tutto lo Stivale.

«Mettiamo che tu sia un prosumer, con dei pannelli solari, per esempio», continua Membretti, «e che quindi tu lavori a casa, nel luogo in cui produci l’energia che consumi e che magari rimetti in circolo; la persona che svolge un impiego nella sua abitazione non è un reietto, non è qualcuno tagliato fuori, ma è addirittura un individuo che contribuisce a rigenerare il territorio in cui vive». Certo, bisognerebbe però anche incentivare la dimensione sociale dello smart working, organizzando spazi di co-working perché si possa rimanere nel borgo, ma in una dimensione di interazione, di scambio e di comunità. Non sarebbe necessario nemmeno rimanere a distanza l’intera settimana: basterebbe avere dei lavoratori multilocali, che debbano spostarsi solo per due o tre giorni a settimana.
La necessità di una svolta culturale
Perché lo smart working possa diventare veramente strumento di rivalorizzazione delle aree interne, però, serve un grosso cambiamento culturale. «La narrazione dominante vede il ritornante o il restante come qualcuno che alleva capre o fa un prodotto di nicchia biologico», dice il sociologo. «È fuorviante, perché sicuramente c’è questo, ma c’è anche molto altro, tra cui lo smart-worker, appunto». Quando si pensa a valorizzare le aree interne italiane, in più, spesso si fa un collegamento automatico con il settore turistico, come se non ci fosse altra possibilità per far rivivere le zone rurali che quella di farle diventare dei musei a cielo aperto. Per essere vitale, però, un paese non può essere ridotto a una cartolina, un luogo d’accoglienza per turisti più o meno danarosi. «Un atteggiamento di questo tipo non favorisce il ritorno dei giovani», conclude Membretti, «ma solo di determinate categorie di imprenditori, che magari si comprano un intero borgo per creare resort, senza che per il territorio ci sia un ritorno. Il tema del turismo deve essere integrato con altre attività, come lo smart working, appunto, per favorire una residenzialità di medio-lungo periodo».