Nel 1997, con l’articolo The Brand Called You, Tom Peters, CEO della rivista americana Fast Company, invitava il lettore a trarre esempio dalle grandi marche e a considerare di trasferire i principi di marketing sulla propria persona. «Da oggi sei un brand», scriveva Peters, alla stregua di Pepsi o Levi’s, al fine di comunicare la necessità di scovare la propria unicità. «Ognuno ha la possibilità di imparare, migliorare e sviluppare le proprie abilità. Ognuno ha la possibilità di essere un brand degno di nota.»
Nasceva tra quelle righe il concetto, ormai noto, di personal branding: un complesso di strategie messe in atto per promuovere se stessi, le proprie abilità e competenze, le proprie relazioni ed esperienze, non solo professionali, sul mercato del lavoro. Costruirsi una solida reputazione era impresa tutt’altro che facile già 25 anni fa, prima dell’avvento dei social media e della rivoluzione digitale. Oggi fare personal branding in equilibrio tra le Stories di Instagram, i video di TikTok e i post di LinkedIn richiede abilità da funamboli.
Eppure, è proprio a quelle piazze virtuali che i recruiter guardano per trovare e valutare potenziali candidati. Secondo la ricerca Work Trends Study 2021, condotta da Adecco in collaborazione con l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, che ha messo a confronto le abitudini dei candidati e le opinioni dei recruiter, i social media sono ritenuti canali di selezione efficaci dal 58,6% dei professionisti HR. Per il 30% di loro la reputazione online del candidato è un fattore rilevante nel processo di valutazione. E ancora, in base ai dati dell’indagine realizzata da FlexJobs, il 70% dei recruiter dichiara di usare con successo i social per assumere nuovi dipendenti, e non solo LinkedIn, Facebook, Twitter e Instagram, ma anche Spotify, Snapchat e Tinder.
In un mondo che cresce a velocità così elevata è fondamentale saper usare questi canali in maniera consapevole e onesta, come fossero avamposti identitari più che vetrine attraverso cui apparire. Ed è su questo snodo che la narrazione di sé può diventare complicata: cosa accade, infatti, se l’identità riflette una percezione viziata dal pregiudizio? La ricerca del Center for Talent Innovation racconta di come per le donne sia molto più difficile, rispetto agli uomini, sviluppare un solido personal brand, perché soggette sul posto di lavoro a molti pregiudizi legati al genere: proprio a causa di questi bias, numerose lavoratrici vedono precludersi ogni occasione di crescita professionale e di carriera.
Come riuscire a valorizzare se stesse, superando questi condizionamenti? Come far leva sulla propria unicità di genere per auto-promuoversi? Nel terzo appuntamento di Wow – Women on Wednesday, la serie PHYD sull’empowerment femminile, dal titolo “La valorizzazione di sé: il personal branding come motore delle carriere”, la giornalista Elisa Serafini ne parla con Francesca Devescovi, CEO di DigitAlly, piattaforma di formazione digitale, Benedetta Tornesi, Founder & CEO GRLS, startup dedicata alle leader di domani, e Federica Mutti, imprenditrice digitale e content creator.
Personal branding, primi passi
Il personal branding nell’era della digitalizzazione e in un mercato del lavoro così complesso è più importante che mai, per chi vive la sua prima esperienza professionale così come per chi naviga da più tempo nel mercato del lavoro. Ma cosa significa esattamente pensarsi come un brand, posizionarsi o riposizionarsi per mettere in luce le proprie competenze? Quali sono gli step necessari per emergere? Lungo il percorso di Federica Mutti, il personal branding ha rappresentato una costante: dal suo primo impiego come cassiera in un supermercato al colloquio con Google, fino alla carriera di imprenditrice digitale.
È una presa di coscienza, di consapevolezza, di chi siamo e di dove vogliamo andare. Non è facile, certo, soprattutto quando si è giovani, ma è comunque importante iniziare a ragionare sulla propria visione e direzione.
Federica Mutti, imprenditrice digitale e content creator
Un inizio, suggerisce Mutti, potrebbe essere quello di porci delle domande, anche attraverso un esercizio di scrittura spontanea, su di noi, sulle nostre ambizioni e sugli obiettivi a breve e medio termine. Poi, è bene provare a concretizzare queste espressioni di volontà in scelte strategiche, come la scrittura ragionata del CV o la cura del proprio profilo LinkedIn, la definizione di uno stile personale e riconoscibile di comunicazione o la costruzione di una rete professionale attraverso cui percepirsi meglio. Quello che conta, in ciascuna di queste fasi, è fare in modo che «il vostro personal branding non si discosti molto dalla vostra personalità.»
Autentici e coraggiosi
Per mettere in evidenza la propria personalità durante un colloquio o nel corso della carriera, esistono alcune soft skill che più di altre impressionano le aziende. Le racconta da un punto di vista privilegiato Francesca Devescovi, che proprio grazie a DigitAlly nel 2021 ha assistito a quasi 600 colloqui.
Secondo me la soft skill cui le aziende guardano con maggior interesse è la parte legata al Growth Mindset, quindi la capacità di essere autentici – cv troppo belli o presentazioni di sé perfette, ad esempio, sono meno efficaci.
Francesca Devescovi, CEO di DigitAlly
«È importante, invece, la capacità di affrontare nuove sfide, di accettare l’errore, di superare i fallimenti. Saper raccontare le paure, le incertezze e sapersi adattare ai cambiamenti, anche repentini.»
Per quanto si possa essere più o meno inclini, il Growth Mindset è una skill che richiede molto allenamento, ad esempio ricercando sempre un confronto con chi ha maggiore esperienza e praticando quotidianamente e con coraggio l’autenticità.
Le domande giuste
Il coraggio di essere autentiche, nel successo come nel fallimento, è ancora più necessario per le donne, oggi e soprattutto in Italia. Quando si parla di personal branding al femminile ci si può imbattere in un confidence gap, una differenza tra il modo in cui le donne percepiscono le proprie capacità rispetto alla controparte maschile. Secondo una ricerca dell’Harvard Business Review, gli uomini si candidano per una posizione quando hanno più o meno il 60% dei requisiti richiesti, le donne il 100%. Lo stigma del fallimento, la mancanza di fiducia finisce, quindi, per condizionare l’ambizione delle donne che, stando alle statistiche, sono in media più competenti e preparate degli uomini. Benedetta Tornesi ha lanciato la campagna “La domanda giusta”, proprio nel tentativo di normalizzare l’ambizione femminile. «La domanda giusta è il progetto di comunicazione integrata con cui abbiamo rilanciato GRLS, per portare consapevolezza e ispirazione su questi temi, soprattutto alle giovanissime della Generazione Z.»
Abbiamo posto domande sull’aumento salariale, sulla fiducia in se stesse, sul supporto e sull’indipendenza economica. I dati non ci hanno sorpreso: il 56,7% delle donne che hanno risposto al sondaggio non ha mai chiesto un aumento.
Benedetta Tornesi, Founder & CEO GRLS
Le donne, lo sottolinea Devescovi, incontrano sul proprio percorso professionale (e non solo) più ostacoli rispetto agli uomini: l’invito è quello a non farsi condizionare dalla paura del giudizio e dai tanti, troppi stereotipi di genere che ancora persistono.
Per guardare il webinar e non perdere i prossimi appuntamenti di Wow – Women on Wednesday, è sufficiente registrarsi sul sito di PHYD.