Ripensare il lavoro, tanto più dopo la pandemia, non può ridursi a una mera riorganizzazione delle aziende né a qualche legge di corto respiro. Deve essere un’operazione culturale, di senso. Un’operazione che punta a coinvolgere virtuosamente politica, imprese, sindacato e singoli lavoratori.
Per questo Marco Bentivogli, una vita nei metalmeccanici Fim-Cisl e poi fondatore di Base Italia start-up, tra i più concreti esperti di cambiamenti nel mondo del lavoro, ha scritto un libro. Un libro non legato alla congiuntura ma a «una visione prospettica» su, così recita il titolo, Il lavoro che ci salverà. Cura, innovazione e riscatto: una visione prospettica (San Paolo, 2021).
Il lavoro che salverà il lavoro
Quale lavoro ci salverà? Ci salverà il lavoro «che saprà vincere le tre sfide: trasformazione digitale, demografica e climatico-ambientale, sarà un lavoro che cura, riscatta, libera».«
La prima, vera sfida, la sfida che sta dietro tutte le altre sarà quella dell’inclusione. Ma a chi ci riferiamo quando parliamo di inclusione? «Ai giovani, ma anche a chi giovane non è più, ma ha l’esigenza di riqualificarsi e di reinserirsi in un percorso di formazione».
La parola chiave di questa prima sfida è: adattabilità. Una parola, spiega Bentivogli, che «non deve essere confusa con “precarietà” o scarsa specificità professionale». È vero infatti il contrario: «la filiera stessa delle competenze si amplia e deve sapersi evolvere alla stessa velocità con cui si sviluppano le tecnologie». Che fare, dunque? Riallineare il mismatch tra «un’innovazione tecnologica che ha ingranato la quarta» e una «formazione professionale che procede a malapena in seconda».
La tecnologia è come l’acqua in cui nuotiamo
In questo riallineamento bisogna ricalibrare la nostra idea (sbagliata) di una tecnologia che «ruba il posto di lavoro» o, peggio, «lo cancella».
La tecnologia è come l’acqua in cui nuotiamo. Infatti, prosegue Bentivogli, «non si può fermare l’acqua che scorre con le mani, insomma, né possiamo permetterci di perdere tempo prezioso in inutili e dannose discussioni che poco hanno a che vedere con la vita vera e le esigenze di chi lavora».
Dobbiamo pensare a un’ “umanità aumentata”: concentrata sugli aspetti unici del nostro essere donne e uomini.
Occorre decidere, allora, «innanzitutto di fronte a se stessi, se si vuole stare dentro o fuori dalla realtà. Il rischio è di lasciare indietro qualcuno: il più debole».
Umanità aumentata: il futuro della tecnologia
Quando parliamo di trasformazione digitale e innovazione, però, dobbiamo ricordaci – precisa Bentivogli – che non dobbiamo guardare le singole innovazioni, ma l’innovazione del sistema.
L’innovazione, nel mondo del lavoro, è un insieme di tante innovazioni incrementali capaci di disegnare «uno spazio di vita la cui carica umana si sviluppi in quantità e qualità. In questo senso parlo di un’esperienza, la nostra, che può diventare a “umanità aumentata”: più autonoma, libera, creativa, più concentrata e sviluppata sugli aspetti unici del nostro essere donne e uomini». Un’umanità inclusiva capace di disegnare attivamente il futuro umano della tecnologia.
Narrare un’altra innovazione
Per innovare, però, bisogna narrare. Per arrestare il declino bisogna reimparare «a dire “lavoro” e le parole del lavoro, se vogliamo crearne di nuove e ritrovare un rapporto di reciprocità con esso».

Oggi, infatti, «il lavoro soffre perché mancano nuove grandi narrative che trovano un comune denominatore per tutte le attività umane connesse ad esso. La narrazione del lavoro che è prevalsa nell’ultimo secolo e mezzo sta velocemente tramontando. Immaginiamo e idealizziamo (anche per mancanza di memoria) il lavoro della civiltà contadina e della grande fabbrica di un tempo. Occorre, anche per questo, parlare del lavoro che dà dignità alla vita e che ci fa fiorire pienamente». Solo in quest’ottica innovazione, inclusione e sostenibilità possono diventare le vere chiavi di volta del cambiamento.
Workitects, gli architetti del lavoro
L’ultima sfida, quella che connette tutte le altre, è invece quella del design inteso come co-progettazione del futuro del lavoro.
Recentemente, spiega ancora il responsabile di Base Italia, «mi hanno definito workitect (“architetto del lavoro”) ed è proprio questo che penso occorra fare: ripensare e progettare le nuove architetture del lavoro, industriali, sociali ed economiche».
Significato, sensazione e direzione: questi gli snodi da affrontare per ridisegnare il lavoro.
Tutto parte non solo dalle vecchie e nuove esperienze della nostra vita, ma soprattutto da una riflessione profonda sul senso del lavoro. Come recuperare il senso in questa fase di transizione?
«Tre sono le accezioni qualificanti della parola senso: significato, sensazione e direzione. Sono altresì gli snodi da affrontare proprio per rimappare il senso del lavoro e iniziare a ripensarlo. Il lavoro è una delle esperienze etiche e spirituali della vita». Non possiamo privarcene.
Il compito che ci attende, conclude il coordinatore di Base Italia, è proprio quello di contribuire a riscrivere il vocabolario del lavoro e le sue pratiche. Green, tech, sostenibili, inclusive. In una parola: umane, per tutti.