Il lavoro in ciabatte, sul terrazzo o in salotto. L’epidemia di coronavirus ha cambiato certezze e consuetudini che sembravano granitiche nel mondo del lavoro e ha reso l’eccezione dello smart working una regola comune a tanti, forse a tutti. Lo dimostrano le parole del sindaco di Milano Giuseppe Sala che dice: «Quando vedo chiuse le torri che ospitavano fino a 3mila dipendenti, come sindaco mi preoccupo. I consumi sono in discesa e sarà così per un periodo abbastanza lungo. Così rischia di rimetterci Milano».
Un campanello d’allarme non isolato. La stessa preoccupazione si riscontra anche a Londra, dove il sindaco Sadiq Khan ha definito il futuro «preoccupante, se tutte le aziende opereranno in smart working. A rimetterci rischiano di essere tante piccole imprese che si sostengono con il viavai di lavoratori, come bar, tintorie e calzolai».
Un problema presente anche negli Stati Uniti dove si stima la perdita dell’”economia da ufficio” in miliardi di dollari. Grandi catene e piccoli negozi sono state già costrette ad affrontare un necessario e doloroso cambiamento delle loro aspettative, visto che quasi 100 milioni di lavoratori in smart working hanno bloccato un’economia fatta di acquisti prima e dopo l’orario di ufficio. Un’inevitabile fase di ridimensionamento rischia di riguardare tanto il settore dei viaggi, una voce di spesa importante per ogni azienda in passato, quanto quello degli affitti, che dovranno affrontare una fase di inevitabile calo a causa dello svuotamento delle città.
In questo modo si ribalta la stima che nel 2012 il professor Enrico Moretti dell’Università di Berkeley aveva riportato nel libro “La nuova geografia del lavoro”, quando prevedeva che un posto di lavoro qualificato in più si creavano fino a 5 posti di lavoro non qualificati. Oggi il barista, il cameriere, l’addetto alle pulizie, rischiano di perdere il proprio posto di lavoro a causa dell’assenza in ufficio di un ingegnere o di un programmatore, che invece continueranno il loro lavoro da casa.
Si ribalta “la geografia del lavoro” di Enrico Moretti: il barista e il cameriere rischiano di perdere il proprio posto di lavoro a causa dell’assenza in ufficio di un ingegnere o di un programmatore
La situazione in Italia non è molto diversa da quella del resto d’Europa. Da tempo molte imprese hanno annunciato che lo smart working sarà un elemento stabile del loro futuro. L’annuncio dell’amministratore delegato di Eni Claudio Granata lo conferma: «Anche dopo la scoperta del vaccino anti-Covid, il 35% dei dipendenti lavorerà in maniera fissa da casa».
Sulla scia del cane a sei zampe si muoveranno anche grandi colossi come Leonardo, Fujitsu e Unicredit, che hanno già annunciato la prosecuzione del lavoro da remoto. Secondo Cesare Avenia, presidente di Confindustria digitale, «a regime il 60% dei posti di lavoro sarà gestito solo da remoto e a guadagnarci saranno la produttività del settore e il benessere dei lavoratori».
Anche per le imprese i benefici sono evidenti, ad esempio dal punto di vista immobiliare. Molte aziende non sono proprietarie dei propri uffici ma li hanno in locazione e così, alla scadenza del contratto, potrebbero decidere di trasferirsi in spazi più contenuti. Altre invece, durante il lockdown, hanno compreso di avere quote di lavoratori in sovrannumero e di poter raggiungere la stessa efficienza con una minore occupazione. Risultato: secondo Barclays, il prolungamento dello smart working, anche se alternato con il lavoro in presenza, potrebbe tradursi comunque in una riduzione fino al 30% della domanda di uffici.
Effetti che potranno incidere profondamente sul volto delle città italiane e segnare il futuro professionale di molti lavoratori legati all’“economia da ufficio”. Secondo un’indagine condotta lo scorso luglio da Agi e dal Censis, 2,8 milioni di lavoratori da remoto possono mandare in crisi molte aziende che operano nel commercio, sia all’ingrosso che al dettaglio. Sarebbe un danno soprattutto per le piccole e medie imprese, che rappresentano il 96,2% del totale e dove lavorano 3,4 milioni di persone. Una vera e propria “crisi della cotoletta” che potrebbe portare sull’orlo del fallimento quasi 179mila imprese di servizio, tra cui bar, ristorazione e alloggio, e 88 mila imprese di commercio.
Le stime Ismea dicono che a fine anno il canale Ho.Re.Ca (Hotellerie, Restaurant, Cafè) potrebbe arrivare a perdere fino al 40% del proprio fatturato. Una vera e propria contrazione di mercato destinata a incidere pesantemente sul futuro di molte città.