Per decenni è stato alla base delle analisi e delle scelte di politica economica ad ogni latitudine. È il prodotto interno lordo (PIL), ovvero la somma dei beni e dei servizi finali prodotti da un Paese: un indicatore macroeconomico che nel tempo si è trasformato in vero e proprio “termometro” dello stato di salute di una nazione. Ma stiamo assistendo a una rapida svolta che porterà a un deciso cambio di paradigma. Ne è convinto Lorenzo Fioramonti, ex ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca che ha scritto il libro “Il mondo dopo il Pil” (Edizioni Ambiente).
Il PIL è visto da Fioramonti come capace di leggere solo la «punta dell’iceberg», ovvero misura solo in parte capace di raccontare la complessità di un Paese, che non è fatto solo di tasse, fatturati, manovre e decreti fiscali, ma di bisogni, di relazioni, di situazioni di disagio che i numeri troppo spesso non riescono a rappresentare. Da qui il bisogno di mettere a punto modelli economici che siano davvero sostenibili.
«Ho scritto questo libro per raccontare il paradosso che viviamo tutti i giorni: siamo in una società dove aumentano le diseguaglianze». Per Fioramonti infatti il PIL «non è solo un numero, ma una potente istituzione a supporto dell’attuale sistema economico». Un sistema che, si legge nell’introduzione, «impone uno stile di vita stressante, genera desideri irrazionali e minaccia di squarciare il mondo, minando quelle fondamenta sociali e naturali che rendono possibile la vita».
«Il PIL, in realtà, non è mai stato pienamente adeguato», continua il Ministro, «perché ha sempre concepito lo sviluppo economico di un Paese sulla base della quantità di produzione e di consumo, senza distinguere cosa fosse positivo per l’utilità generale, e cosa non lo fosse. Ogni processo produttivo ha un costo sociale e ambientale: un sistema di contabilità nazionale all’altezza dovrebbe sempre aiutare a comprendere se una certa produzione è davvero conveniente». L'esempio che Fioramonti fa è quello del petrolio: «Quanto ci costa produrlo? Conviene davvero utilizzarlo? L’energia che ne deriva per mettere in moto le automobili e per trasportare le merci è realmente utile, ovvero crea più valore dei danni ambientali e di salute? Negli anni Quaranta si badava poco a questi aspetti, ma ora tutto è cambiato ed è necessario che queste esternalità negative vengano considerate e misurate, prima di prendere delle decisioni a livello politico».
E allora, come scalzare il PIL dal podio degli indicatori dello stato di salute di un Paese e sostituirlo con misure che siano “a misura d’uomo”? Fioramonti spiega ad esempio come «le metriche che “internalizzano” le esternalità delle attività economiche possano influenzare la percezione politica e collettiva delle grandi imprese, grazie in particolare alla quantificazione dei loro costi per la società, indebolendo in ultima analisi la loro accettabilità pubblica. Allo stesso tempo, le piccole imprese e l’economia della “condivisione” vedrebbero amplificato il loro contributo alla ricchezza e al progresso dato che il loro impatto sul benessere collettivo va di solito ben oltre il limitato valore monetario catturato dal PIL. In questo modo, i responsabili politici e i cittadini verranno incoraggiati a spostare le loro preferenze verso un nuovo tipo di crescita economica. Per ottenere crescita economica, il sistema economico post PIL dovrà ottimizzare produzione e consumi, invece di massimizzarli come accade ora».
E c'è per Fioramonti qualcosa che ha svelato in modo radicale l'inadeguatezza del PIL: l'innovazione tecnologica. «Con l’evoluzione tecnologica le nostre economie producono valore in maniera radicalmente diversa rispetto al passato. Pensiamo alla cabina telefonica degli anni Ottanta, quando per effettuare una semplice telefonata si sostenevano dei costi. Confrontiamola con la telefonia moderna, che ci consente di comunicare gratuitamente con tutto il mondo anche attraverso foto, video e dirette. L’indicatore del PIL si muove quando andiamo nella cabina telefonica, perché spendiamo dei soldi che vengono registrati dalla contabilità nazionale, e non quando inviamo gratuitamente un contenuto attraverso la rete. Ma io mi chiedo, qual è l’economia più avanzata? Quella che ancora utilizza la cabina telefonica, o quella che si basa su un sistema di comunicazione digitale e gratuito? Il PIL, che contabilizza solo la spesa monetaria diretta, non riesce a intercettare il valore aggiunto di un’economia sempre più immateriale, che aggiunge una ricchezza non ancora tenuta nella dovuta considerazione».
Per l'ex ministro «ciò che misuriamo influenza ciò che facciamo. Se dico ai miei lavoratori che il loro stipendio è basato sulla misurazione di un certo output, i lavoratori si adegueranno e cercheranno di aumentarlo. Il PIL è la valutazione delle performance di una società: quindi se è quello l’obiettivo, tutti in qualche modo cercheranno di adeguarsi. Se modifichiamo il paradigma, stabilendo che le aziende di successo non saranno più solo quelle in grado di aumentare la produzione ma anche di incrementare la qualità, creando benessere equo e sostenibile e internalizzando i costi ambientali e sociali legati al proprio lavoro, a quel punto le aziende si dovranno adeguare. Cambiare le misurazioni è una strada molto intelligente per influenzare i comportamenti politici, sociali ed economici».
Ecco dunque l'obiettivo: un’economia post PIL «in cui cambierà la teoria del valore, riconoscendone la creazione a realtà – come le associazioni o le organizzazioni della società civile –che al momento non sono considerate. Realtà che non producono beni che acquistiamo sul mercato, ma servizi gratuiti di grande impatto per la società. Modificando il paradigma, riconosceremo a tante realtà sociali alle quali per decenni non abbiamo dato valore economico, il fatto di essere in realtà molto più produttive di altre. Daremo enfasi maggiore ai beni comuni, ai ruoli sociali, alla società civile, al ruolo della coesione sociale e della lotta alle disuguaglianze per creare un’economia del benessere. Si sta esaurendo il modello di un’economia verticistica nella quale si produce e si consuma in maniera separata, e si andrà verso un sistema di co-produzione nel quale il consumatore abbandonerà un ruolo passivo per interagire con chi produce. Sarà un’economia sempre più orizzontale e partecipata, nella quale si riconoscerà un valore trasversale ad attività non di mercato che, per troppi anni, la logica del PIL ci ha portato a considerare prive di valore economico».
«So perfettamente che cambiare un numero non basta per cambiare il mondo», conclude Fioramonti, «perché ciò avvenga, serve uno sforzo coordinato dei vari settori della società: un movimento globale impegnato a sfidare lo status quo e gli interessi dietro di esso». Anche perchè «non esiste un benessere sostenibile, né una responsabilità democratica, se i cittadini non hanno la possibilità di decidere quali dovrebbero essere gli obiettivi ultimi della vita politica ed economica».