Nel 2018 l’export di beni italiani è arrivato alla cifra di 462,8 miliardi di euro. Numero che, bilanciato da importazioni per 423 miliardi, ha determinato un surplus del commercio estero di 39,8 miliardi di euro. In un momento di crescita zero l’export italiano incrementa il suo giro d’affari di tre punti percentuali, soprattutto grazie ai prodotti tessili e dell’abbigliamento, pelli e accessori (+3,3%), ai metalli di base e ai prodotti in metallo (+5,1%), ai mezzi di trasporto, esclusi gli autoveicoli (+4,5%) agli articoli farmaceutici, chimico-medicinali e botanici (+4,7%).
Tutto bene quindi? No, perché troppo spesso le imprese italiane sono lasciate sole. Ne è un esempio la storia di Pelliconi Spa, iniziata 39 anni fa, e oggi leader del mercato del beverage per cui produce praticamente la quasi totalità dei tappi in commercio.
«Si parla sempre di moda, automotive di lusso, vino», spiega l’AD Marco Checchi, «Ma la spina dorsale del made in Italy è meccanica e di subfornitura. Quel mondo che vende prodotti ad altre aziende, il famoso be to be. È tanti anni che si parla di made in Italy, Carlo Maria Cipolle disse “significa produrre all’ombra dei campanili cose belle che piacciono al mondo”. Per la nostra azienda, quella che viene definita multinazionale tascabile, made in italy ha voluto dire sin dagli anni ’50, quando abbiamo cominciato ad esportare, combattere il pregiudizio sull’affidabilità del fornitore italiano. I birrai tedeschi non si fidavano che gli avremmo fatto avere il materiale in tempo. Risolto questo, la qualità e l’innovazione ci avrebbero fatto imporre nel mondo. Tutto con le nostre forze. Così come, varati i dazi in Usa, siamo stati noi ad andare a trattare con la politica americana ottenendo di venire stralciati dalla lista dei prodotti sottoposti alla norma. Ma oggi bisogna cambiare. Le aziende non possono essere lasciate sole nelle difficoltà e nella soluzione di problemi che sono nazionali. C’è bisogno di una politica industriale precisa. Di un Sistema Italia che non c’è».
Un’analisi che condivide – all’interno del panel sul palco de Linkiesta Festival, di cui Morning Future è stato media partner – anche Giuseppe Mazzarella, delegato all’internazionalizzazione di Confartigianato secondo cui «la politica dovrebbe cominciare a dialogare con le rappresentanze del mondo imprenditoriale, che è fatto principalmente di Pmi e microimprese». A dirlo sono i numeri del comparto: «nel 2018 hanno aperto ogni giorno 300 nuove imprese artigiane. Significa, con una media di tre dipendenti ciascuna, ogni giorno un mercato di 900 nuovi dipendenti. Il club delle imprese italiane che hanno più di 250 dipendenti è solo del 2%. Il vero corpo del made in Italy è fatto di micro realtà».
Un mondo fatto di tanti piccole realtà che si trovano oggi di fronte a enormi sfide e ostacoli. «Solo i dazi di Donald Trump creano un problema enorme per l’agroalimentare italiano», continua Mazzarella, «sui 2,3 miliardi di export degli ultimi 12 mesi si rischia, nel 2019, che si perda un miliardo di euro. Una misura che va a colpire infatti un asset molto importante: gli Usa sono per l’Italia il terzo Paese per export con un comparto in cui lavorano 90mila aziende. Non si può pensare che sia il tessuto produttivo a trovare soluzioni, come ha fatto Pelliconi».
I problemi però per Mazzarella non si esauriscono nell’attualità: «Le nostre imprese avrebbero bisogno di tanti aiuti, non solo da oggi, e non solo rispetto alla novità di Trump. Penso alla tracciabilità, che ad esempio in Cina non è garantita. Questo non è solo un danno per il consumatore ma anche per il made in Italy tutto, perché si perde il nostro vantaggio competitivo, che è la qualità, senza contare il fatto che la saturazione del mercato abbassa i prezzi. Abbiamo poi bisogno di lavorare sulla sostenibilità. Le piccole imprese italiane non licenziano, non delocalizzano, e continuano a investire: questo deve essere valorizzato».
«Il modello per il made in Italy deve essere Milano, con una nuova impostazione che abbracci la modernità», chiarisce Mattia Mor, deputato di Italia Viva, «Io sono stato imprenditore per quindici anni e sono stato manager di Alibaba in Italia. Mi occupo di politica solo da due anni. Milano sintetizza in piccolo le migliori caratteristiche del made in Italy. È una città dove sono rappresentate tutte le filiere: dalla moda alla meccanica, dal design all’agroalimentare. Ed è una città che si muove come sistema. Made in Italy non significa solo aiutare le aziende ad esportare, ma soprattutto costruire a livello sistemico una strategia per esportare un racconto. Hanno ragione gli imprenditori: l’Italia deve fare rete per esportare marchi e importare turismo e investimenti. Servono incentivi che aiutino le aziende ad andare all’estero, attrarre capitali e turisti. L’export è quello che ci ha permesso di rimanere in piedi durante la crisi. È il comparto più strategico che abbiamo. Ma bisogna fare di più e meglio. Serve un racconto del sistema Paese che ci dia credibilità all’esterno. Quello che ha fatto Milano durante Expo è la strada che dovrebbe seguire l’Italia a livello nazionale».
Il terreno su cui giocare la partita per Patrizia Toia, eurodeputata del Partito Democratico, però sono le istituzioni europee più che nazionali. «Il dibattito sul del made in Italy, in particolare rispetto alle politiche europee, è fortemente inquinato da vere e proprie fake news», sottolinea, «moltissime delle proposte di fare accordi commerciali internazionali sono state ostracizzate senza motivo. Penso in particolare al TTIP, che si è arenato, e al CETA. Nessuno però parla mai, sopratutto ex post, degli accordi che sono stati stipulati e dei risultati che hanno portato. Qualche settimana fa è stato negoziato ad esempio un protocollo tra Europa e Cina per la tutela di cento prodotti con indicazione geografica. Di questi, 25 sono italiani e 26 francesi. Sul mercato cinese da oggi saranno protetti da contraffazioni e imitazioni. L’accordo con la Corea del Sud era stato contestatissimo: bene, a distanza di anni ha consentito risparmi e la tenuta dell’export europeo dell’automobile. Con il Canada, a due anni dall’entrata in vigore del CETA, i risultati sono ottimi per l’economia europea. Tutti questi trattati proteggono il mercato interno da prodotti scadenti, come la carni ogm, ma anche la nostra identità culturale, che non si mangia né produce ma che è importantissima. A breve partiranno anche accordi con Giappone e Vietnam».
Ma per Toia la questione del made in Italy è mal posta e può essere risolta attraverso la tecnologia: «Ci riempiamo la bocca di questo “made in” ma senza mai realizzarlo. Gli unici passi avanti sono stati fatti dal Parlamento Europeo. Ancora oggi però è tutto fermo. Io credo che dobbiamo spostare l’attenzione su altro, chiamarlo in un altro modo. Dobbiamo cominciare a parlare di tracciabilità. C’è un programma europeo speciale che viene finanziato come sperimentazione per vedere se si possa usare la blockchain su questi temi con etichette digitali. Questa può essere la nuova strada per uscire dall’angolo in cui ci siamo infilati e arrivare alla vera tutela del made in Italy», conclude.