Sul rapporto fra Stato e mercati sono stati scritti migliaia di volumi. «Tanti che potremmo contarli dal numero di foreste usate per ricavarne la carta», osserva Raghuram Rajan. Ma sulla comunità e sul suo rapporto con Stato e mercati la riflessione latita.
Eppure, spiega Rajan, oggi docente di Finanza alla Booth School dell’Università di Chicago, già governatore della Bank of India e vice presidente del consiglio di amministrazione della Banca dei Regolamenti Internazionali, è su questo terzo pilastro che dovremmo far leva per orientare il progresso e migliorare la nostra condizione.

Stato, mercato, comunità: questi tre pilastri sono oggi affetti da un grave disequilibrio. Dar voce alla comunità come luogo di empowerment è urgente e fondamentale, spiega Rajan, che fu tra i pochi a prevedere la crisi del 2008.
«Quando esiste il corretto equilibrio fra i tre pilastri, la società è nelle condizioni migliori per poter garantire il benessere della popolazione». Perché oggi il nostro mondo si trova in una situazione paradossale.
«Ci troviamo circondati dall'abbondanza, non siamo mai stati più ricchi grazie alle tecnologie». Per la prima volta, racconta Rajan, «non sono unicamente i Paesi più sviluppati ad arricchirsi, ma c'è una distribuzione della crescita. Per questo, nell'arco di una generazione abbiamo visto miliardi di persone transitare dalla povertà alla categoria del ceto medio». Eppure qualcosa non funziona.
A fronte di questo traguardo economico senza precedenti nella storia dell'umanità, nei Paesi più sviluppati «crescono stress e preoccupazione fra i lavoratori all'apparenza privilegiati. Pensiamo agli Stati Uniti dove salgono i decessi da suicidio tra i cittadini di sesso maschile, pelle bianca e non ispanici. Le morti sono inoltre concentrate fra le persone che hanno un titolo di studio che raggiunge al massimo il diploma superiore». A questo si aggiungano le epidemie di oppiacei e alcool e la domanda risuonerà ancora più drammatica. Che cosa accade, dunque?
La comunità tiene l’individuo ancorato a una serie di reti umane reali e gli conferisce un senso di identità: questo permette di rispondere meglio alle crisi
Racconta Rajan che queste ansie, dagli esiti particolarmente drammatici negli Stati Uniti, ma riscontrabili in tutto l'emisfero occidentale, sembrano nascere da una preoccupazione precisa: la perdita della condizione «da ceto medio». Una perdita le cui cause l'opinione comune individua nel commercio internazionale e «nell'automazione tecnologica delle vecchie professioni, mentre c'è poca consapevolezza che la causa principale sia il progresso tecnologico».

«La rivoluzione tecnologica sta avendo effetti dirompenti anche al di fuori delle comunità afflitte da problemi economici. Sta determinando un incremento significativo dello scarto fra il salario medio e quello delle persone più capaci, con le migliori impiegate in poche big corporation che offrono stipendi elevati ed esercitano un dominio sempre più marcato in vari settori. Ciò spinge le famiglie di ceto medio-alto ad allontanarsi da comunità in cui vive una popolazione mista sotto il profilo economico e a trasferire i figli in scuole situate in comunità più ricche, dove verranno educati meglio insieme ad altri bambini che come loro vengono seguiti in maniera adeguata».
Davanti a questo mix di realtà percepita e condizioni di vita sempre più stressate da un sovraccarico emotivo, «il futuro appare al tempo stesso promettente e pericoloso». Lo Stato e i mercati, da soli, possono rispondere a queste inquietudini? Qui entra in gioco la comunità.
Spiega Rajan che «la soluzione a questo problema, e a molti altri che affliggono la nostra società, non passa principalmente attraverso lo Stato o i mercati. Si tratta semmai di rivitalizzare la comunità e di far sì che svolga le sue funzioni essenziali in modo migliore, l’istruzione per esempio. Solo così avremo l’opportunità di attenuare la seduttività delle ideologie radicali. La via per uscire dall'impasse consiste nel ridare alla comunità il potere che lo Stato le ha sottratto». Un potere in termini di welfare, valori, relazioni reali.
La comunità ci conferisce un senso di autodeterminazione, di controllo diretto sulla nostra vita, rendendo al tempo stesso i servizi pubblici locali più funzionali per noi
Anche le imprese dovrebbero essere più vicine alle comunità, osserva l'economista che è stato inserito dal Time nella lista delle 100 personalità più influenti al mondo. Anche perché «dato che i nuovi sviluppi tecnologici stanno alterando il mondo del lavoro, anche le strutture sociali devono cambiare. Abbiamo bisogno di nuove strutture per i nuovi tipi di lavoro: società e comunità devono adattarsi al cambiamento tecnologico, poiché è proprio la mancanza di questo adattamento a causare uno stato d’ansia socialmente diffuso».
In questo senso, le piccole imprese grazie alla «tecnologia, le industrie di larga scala sono diventate più facili da gestire e spesso più efficienti. Allo stesso tempo è possibile anche per le piccole aziende usare la tecnologia per far parte di un network più grande. Penso che la chiave si trovi nel trovare la dimensione adatta per il settore specifico. Le imprese italiane devono adattarsi e ce ne sono alcune che hanno fatto un ottimo lavoro. Vedo la loro vicinanza alle comunità come una forza e non come una debolezza. Una forza che deve allearsi con la tecnologia, perché la comunità è sempre una comunità concreta, una realtà. Se vogliamo riequilibrare il sistema e non dare spazio al populismo è su questa comunità concreta, aperta al mondo e agli scambi, che dobbiamo partire, non da quella immaginata degli etnonazionalismi».
Per salvare lo Stato, salvaguardando i benefici del mercato – conclude Rajan – dobbiamo ricordarci delle comunità. «Soprattutto del valore delle reti di relazione, sostegno, decisione e scambio. La prossimità non è in contraddizione, ma è un valore aggiunto in un'epoca di globalizzazione e distanza».