Quanto sono buone le imprese italiane? Per rispondere a questa domanda occorre prendere in mano la seconda edizione del rapporto “Corporate Giving in Italy”, promosso da Dynamo Academy con il contributo scientifico di Sda Bocconi Sustainability Lab e Università degli Studi di Milano,e la collaborazione del network internazionale Cecp e con il supporto di PwC e Newman’s Own Foundation.
Il quadro generale
Per inquadrare i dati occorre però allargare lo sguardo e considerare altre analisi. Secondo l’VIII Rapporto sull’impegno sociale delle aziende realizzato da Osservatorio Socialis e Istituto Ixè, l’84% delle 400 aziende intervistate ha scelto di attuare iniziative di responsabilità sociale e ambientale (a fronte del 73% del 2014), con un investimento di 1,412 miliardi di euro, più del doppio di dieci anni fa. Una tendenza confermata anche dall’ultima stima dell’Ernop (European Research Network on Philanthropy), che posiziona l’Italia nella top five dei Paesi in cui le imprese erogano più risorse con finalità filantropiche, con 1 miliardo di donazioni complessive, dopo Germania (11,2), Francia (2,8), e Regno Unito. (2,7) e Paesi Bassi (1,4). Un risultato che il rapporto di Dynamo Academy, curato da un gruppo di ricercatori guidato da Clodia Vurro, ha il merito di dettagliare in profondità. Lo studio ha analizzato il giving di 94 aziende di medie/grandi dimensioni, che valgono un fatturato di oltre 209 miliardi di euro, contano 510mila dipendenti e rappresentano il 12% del Pil (dati relativi all’anno fiscale 2017). All’interno del campione, il 45% dei soggetti è italiano, il 55% è rappresentato da filiali italiane di gruppi internazionali; il 30% è rappresentato da aziende quotate. «Si tratta di un campione certamente parziale, ma in grado di restituire una fotografia attendibile dei trend che muovono le strategie di una gamma medio-alta di aziende operative in Italia», anticipa Vurro.

Il made in Italy
Nel 2017 le 94 imprese considerate hanno destinato 191,14 milioni di euro a favore degli enti del Terzo settore, erogato sotto forma di contributi in denaro per l’88% da imprese, per il 5% da fondazioni d’impresa e per il 7% costituito da contributi in beni e servizi. Il valore mediano dei contributi in denaro corporate è stato di 240.735 euro, quello delle erogazioni da parte delle fondazioni corporate è invece pari a 214.250 euro. 57.956 euro è infine il valore mediano delle donazioni di beni e servizi. Il coinvolgimento diretto delle aziende è quindi in crescita, rispetto alle fondazioni di impresa. Nella rilevazione precedente, i contributi in denaro elargiti dalla fondazione di riferimento erano più del doppio rispetto al valore mediano dei contributi in denaro erogati dall’impresa. Il maggior engagement delle imprese si evince anche dal valore mediano delle donazioni delle aziende italiane medio-grandi in rapporto al fatturato che si attesta allo 0,32% (pari al 2,5% del reddito ante imposte). L’anno lo scorso, per avere un termine di paragone (anche se la platea di quest’anno numericamente vale quasi il doppio rispetto al 2017), il giving aggregato rappresentava lo 0,12% del fatturato complessivo delle imprese del campione (in linea con i dati in ternazionali, Stati Uniti in testa) e il 2,2% dell’utile ante imposte.
Il maggior engagement delle imprese si evince anche dal valore mediano delle donazioni delle aziende italiane medio-grandi in rapporto al fatturato che si attesta allo 0,32%

I settori di impatto
Quanto ai settori di intervento: pur restando in vetta alla top 3, cultura, sport e ricreazione registrano un calo di circa il 10% rispetto alla rilevazione precedente, dal 28,19% al 19,71% del giving totale. Cresce invece l’interesse per gli enti del Terzo settore dedicati ad assistenza sociale e protezione civile (dal 14,49% del 2016 al 18,64% del 2017). Al terzo posto, il sostegno agli enti nell’ambito dell’assistenza sanitaria.

Le erogazioni in denaro continuano a prevalere, rappresentando il 93% del giving totale. Rispetto alla rilevazione precedente, si riscontra un maggior ricorso alle donazioni di beni e servizi, che passano dal 3% al 7% del totale erogato nel 2017. Si tratta comunque di una percentuale ridotta se comparata alla ripartizione per tipologia di giving del campione statunitense. Le imprese a stelle e strisce sembrano privilegiare un approccio piu diversificato, con un valore di donazioni in beni e servizi che si attesta stabilmente intorno al 18%. Come detto si riduce il valore delle erogazioni in denaro elargite tramite una fondazione d’impresa che, pur nella diversa composizione del campione, continua ad essere presente nel 30% dei casi. Pur con dimensioni differenti, si tratta di una dinamica in atto anche a livello internazionale, dove si riscontra un maggior ricorso alle erogazioni dirette da parte dell’impresa.

I trend
Ma come vanno interpretati questi numeri? Questi gli highlights di Serena Porcari, CEO di Dynamo Academy. Primo punto: «I trend rivelano la tendenza a una professionalizzazione del giving, con una crescente managerializzazione della filantropia corporate i cui responsabili riportano, in sempre più casi, in modo diretto alle massime cariche aziendali, ceo o direttore generale». Secondo punto: «Il successo e la sostenibilità delle iniziative filantropiche dipendono dal sostegno e partecipazione attiva della leadership aziendale, più che dai risultati economici contingenti».

Siamo al cospetto di una crescente managerializzazione della filantropia corporate i cui responsabili riportano, in sempre più casi, in modo diretto alle massime cariche aziendali
«Emerge volontà di fare maggiormente leva sulla riconoscibilità del brand aziendale e connettere più strettamente le scelte filantropiche con le strategie d’impresa. La creazione di una fondazione d’impresa, infatti, porta con sé il rischio di essere percepita e operare in modo separato dall’impresa, rendendone meno incisive le strategie sociali», le fa eco laprofessoressa Vurro. Che aggiunge: «In linea di massima penso si possa dire che la tendenza a gestire in proprio l’attività di giving ormai risponda maggiormente alla gestione del “consenso” sui territori, piuttosto che a necessità puramente di marketing».