Primo dato: su 100 nuovi posti di lavoro creati negli ultimi 12 mesi, 1 è permanente, 4 sono autonomi, 95 sono a tempo determinato. Peraltro, si tratta di cifre perfettamente in media rispetto al resto dell'Unione Europea. Se non è il segnale di un mutamento strutturale del mercato del lavoro, che poco dipende dalla legislazione vigente, più o meno rigida, è auto-evidente. Che si debba guardare molto di più alle nuove forme dei lavori, a un ciclo di vita delle imprese che tende ad accorciarsi sempre di più, sulla scorta di continue rivoluzioni produttive, di nuovi competitori globali che entrano nei mercati, di imprese che hanno sempre più la necessità di somministrare forme di lavoro flessibili per mutare, al mutare delle condizioni di mercato e mantenere alta la produttività del lavoro.
La politica, in questi anni, ha cercato di invertire (invano) questa tendenza. Col Jobs Act, ad esempio, che crea la fattispecie del contratto a tutele crescenti per incentivare le imprese ad assumere a tempo indeterminato. E col più recente decreto dignità, che rende la legislazione italiana meno permissiva rispetto a questa fattispecie e, nei mesi a venire, con incentivi che mirino alla trasformazione dei contratti a termine in contratti senza alcuna scadenza. Servirà? Difficile crederlo. Secondo il giuslavorista Pietro Ichino, «C’è da ragionare per quale motivo in tutta Europa, sia pure in presenza di legislazioni che vincolano in modo diverso il licenziamento di un dipendente a tempo indeterminato, vi sia un ricorso diffuso e omogeneo al contratto a termine. Un ragionamento che si può fare efficacemente soltanto se si evita di partire dalla dicotomia posto fisso – precariato». E anche per Francesco Seghezzi, direttore di Adapt, più della legislazione a incidere è soprattutto «il fronte dell’incertezza economica e dell’incertezza dei mercati internazionali».
Se non funziona il tentativo di orientare il mercato attraverso leggi che spingano a cambiare le forme contrattuali, appare più opportuno spingersi in altre due direzioni. La prima, è quella di favorire l’occupabilità.
Che fare, quindi? Se non funziona il tentativo di orientare il mercato attraverso leggi che spingano a cambiare le forme contrattuali, appare più opportuno spingersi in altre due direzioni. La prima, è quella di favorire l’occupabilità, accorciando le distanze che separano la domanda e l’offerta di lavoro. Un problema, questo, che a differenza del boom dei contratti a tempo determinato è molto peculiare al mercato del lavoro italiano e che riguarda principalmente le politiche di orientamento al lavoro delle scuole e le politiche attive del lavoro: secondo l’Ocse, l’Italia è infatti il paese europeo con il più alto tasso di skill mismatch in Europa, seguito da Spagna, Repubblica Ceca, Irlanda e Austria. E sempre secondo Ocse, lo skill mismatch italiano è più che altro un educational mismatch, legato cioè a una formazione dei giovani non adeguata alle esigenze del mercato del lavoro, poco utile ad acquisire quelle competenze indispensabili per trovare e mantenere un impiego. Non solo: l’Italia è l’unico paese del G7 in cui la quota di lavoratori laureati in posti con mansioni di routine è più alta di quella che fa capo ad attività non di routine. In altre parole, l’unico in cui i laureati, pur di lavorare, sono demansionati rispetto alle loro competenze. Non solo: «sorprendentemente, malgrado i bassi livelli di competenze che caratterizzano il paese, si osservano numerosi casi in cui i lavoratori hanno competenze superiori rispetto a quelle richieste dalla loro mansione, cosa che riflette la bassa domanda di competenze in Italia. I lavoratori con competenze in eccesso (11,7%) e sovra-qualificati (18%) rappresentano una parte sostanziale della forza lavoro italiana». Ancora: «circa il 35% dei lavoratori è occupato in un settore non correlato ai propri studi».
A fianco alle politiche per l’occupabilità diventa fondamentale la riforma del welfare secondo criteri di universalità e di aderenza al mercato del lavoro.
A fianco alle politiche per l’occupabilità diventa fondamentale la riforma del welfare secondo criteri di universalità e di aderenza al mercato del lavoro per come si sta sviluppando. Non più quindi focalizzati sulla mera tutela del lavoratore a tempo indeterminato che rimane senza occupazione, ma nell’ottica di favorire il reskilling e il rapido reinserimento del lavoratore a tempo determinato nel contesto di una nuova occupazione. Anche in questo caso, l’Italia è indietro rispetto al resto d’Europa. Qualche esempio: in Germania chi cerca lavoro può contare sull’Arbeitslosengeld II. Grazie a questa misura, un disoccupato ha diritto a 382 euro al mese più l’affitto, l’assistenza sanitaria, la riduzione sui trasporti, il riscaldamento; per ogni figlio si aggiungono dai 224 ai 289 euro al mese, a seconda delle età. In Belgio il Droit à l’intégration sociale è pari a 755 euro, con un familiare a carico diventa di 1006 euro e con due figli arriverà a superare i 1300 euro, cui si aggiungono l’edilizia sociale o il sostegno per l’affitto. In Austria la Sozialhilfe garantisce alla persona singola circa 500 euro al mese che arrivano a più di 1300 euro per le coppie con figli. Nel Regno Unito, il Jobseeker’s Allowance prevede un sistema analogo, ma molto complicato, di attribuzione dei sussidi, cui si aggiunge l’Housing Benefit per trovare una casa e l’Income Support per coloro che lavorano meno di 16 ore alla settimana. In Francia, infine, c’è il Revenu de solidarité active, che consente di mantenere il sussidio nel caso in cui il reddito da lavoro non permetta di arrivare ai 1238 euro mensili, che corrispondono al salario minimo francese. In ognuno di questi casi, il reddito minimo garantito è accompagnato da politiche attive che formano il lavoratore licenziato, lo riqualificano e gli offrono opportunità lavorative che è costretto ad accettare, pena la perdita del sussidio.