C’è chi, come il World Economic Forum, pensa che la rivoluzione tecnologica chiamata “Industria 4.0” distruggerà nei prossimi anni oltre cinque milioni di posti di lavoro. E chi, come Roland Berger, dice invece che entro il 2035 le nuove tecnologie permetteranno la nascita di 10 milioni di nuovi impieghi. Comunque la si pensi sul futuro, tutti – ottimisti e pessimisti – sono d’accordo sul fatto che il futuro del lavoro passi dal reskilling. O, detto in italiano, dalla ricostruzione delle competenze e dal ricollocamento delle professionalità in uscita da un’azienda in un’altra: «È un tema cruciale su cui noi siamo particolarmente sensibili», spiega a Morning Future Andrea Raimondi, direttore delle risorse umane di IBM, azienda che in questo specifico ambito ha implementato un servizio chiamato “Career Transition Center”, che serve, per l’appunto «per riposizionarsi sul mercato del lavoro e creare competenze nuove tra gli addetti dell’impresa», affinché possano usarle dentro o fuori la stessa.
È la stessa IBM, del resto, che racconta una storia, la propria, che ha conosciuto una grande trasformazione negli ultimi anni: «Noi oggi facciamo metà del nostro fatturato con prodotti e servizi che fino a qualche anno fa nemmeno esistevano, dal cloud all’intelligenza artificiale di Watson – spiega Raimondi – . Quando ridefinisci costantemente la tua offerta di prodotti e servizi, l’impatto sull’organizzazione è molto significativo».
Il “Career Transition Center”, per IBM, è «un tentativo di offrire alle persone un nuovo modo di guardare alla loro professionalità, come fosse un contesto in movimento. Noi vogliamo offrire al lavoratore la possibilità di aggiornare le proprie competenze per aiutarlo a rimanere impiegabili in un mondo che è cambiato». In concreto, spiega Raimondi, «è un percorso su base volontaria: sono sei mesi di supporto professionale, in cui vengono offerti strumenti per migliorare il posizionamento della persona nel mercato del lavoro». Caratteristica vincente del progetto è la sua modularità: pur essendo un progetto globale, che appartiene a tutto il gruppo IBM e improntato alla medesima filosofia, «quella di cercare di trovare meccanismi per rendere le persone impiegabili», è tuttavia declinato in modo differente, nei diversi Paesi, «perché cose di questo tipo hanno successo solo se le inserisci in contesti che hanno la medesima sensibilità».
Il reskilling è una filosofia vincente. È l’unica in grado di far sì che l’Italia abbracci la rivoluzione digitale, affinché chi rimane fuori dal riposizionarsi sul mercato del lavoro.
A proposito di sensibilità, l’Italia non è il Paese più facile del mondo per sperimentare iniziative di questo tipo. Lo dicono i dati, peraltro, con un’incidenza della formazione professionale sul totale dei lavoratori che non raggiunge il 10% contro medie europee alte più del doppio: «Non è una filosofia molto diffusa, in Italia, quella del reskilling – spiega Raimondi – , ma ciò non toglie che non sia una filosofia vincente. È l’unica in grado di far sì che l’Italia abbracci la rivoluzione digitale, affinché chi rimane fuori dal riposizionarsi sul mercato del lavoro, possa rientrare attraverso la creazione di competenze nuove». È centrale la formazione, chiaro, ma non solo: «C’è anche bisogno di dare alle persone il tempo per formarsi, soluzioni che facilitino la formazione continua anche all’interno della normale vita lavorativa».
È un gap che dovrebbe essere colmato (anche) dalla politica, secondo Raimondi: «Qualche anno fa ci furono incentivi all’occupazione in termini di sgravi contributivi – spiega – . Andrebbero poste in essere partnership con operatori che hanno una capillarità sul mercato del lavoro e che potrebbero offrire incentivi per aiutare le persone a ricollocarsi. Questo tipo di sinergie oggi non c’è e va creato». Perché, «più che difendere il posto di lavoro, la politica deve difendere l’impiegabilità delle persone». Non abbarbicarsi in una posizione più conservativa, insomma. Forse oggi più che mai.