Era il 2014 quando l’artista argentina Amalia Ulman iniziò il progetto Excellences & Perfections: una raccolta di 186 scatti postati sul proprio account Instagram. Una serie di immagini che, nel giro di quattro mesi, erano riuscite a farle conquistare l’etichetta di influencer (e una cosa come 94mila follower). Foto curate, in pose e atteggiamenti studiati, con outfit e ambientazioni capaci di far leva su un pubblico sensibile alla storia di una “bad girl” sulla strada della redenzione (compresa di svolta salutistica a base di yoga e prodotti naturali). Il suo intento era far riflettere sulla malleabilità del pubblico. A distanza di quattro anni, dinamiche simili hanno portato all’esplosione dell’influncer marketing. Ma che cos’è? Semplice, l’utilizzo da parte di un’azienda della presenza social di un privato per vendere prodotti e servizi al pubblico convogliato e coagulato attorno a questa personalità e impegnato sui social media. Insomma, basta fare un giro sul profilo Instagram di Chiara Ferragni (influencer per antonomasia e imprenditrice per estensione) per farsi un’idea di quali e quanti messaggi commerciali possono essere inseriti all’interno di un singolo scatto. Ma la neomamma più famosa della Rete è solo la punta di un iceberg che cresce al ritmo di un miliardo di dollari all’anno, con marchi che investono sino a 500mila dollari per una campagna di 12 mesi. Un fenomeno che, secondo i dati dell’Ana (Association of National Advertisers), negli Usa coinvolge circa il 75% delle aziende pubblicitarie.
Per tracciare il perimetro dell’influencer marketing, Launchmetrics da quattro anni pubblica un report che per l’edizione 2018 ha coinvolto 600 professionisti in ambito marketing, comunicazione e PR di aziende del comparto moda e, per la prima volta, 200 influencer, in Europa e negli Stati Uniti legati al settore. «Quando abbiamo iniziato – ha affermato il ceo dell’azienda, Michael Jaïs – molti pensavano che questo fenomeno fosse passeggero. Ora possiamo testimoniare che questo trend non è stato così temporaneo come si pensava, si è stabilizzato ed è diventato una pratica comune». A dirlo sono i dati: il 78% degli addetti ai lavori ha attivato campagne di influencer marketing e fra questi il 90% le ritiene strumenti efficaci per generare brand awarness.
Lo scopo di queste campagne marketing è quello di generare il miglior contenuto possibile, farlo circolare al momento giusto e all’interno del target di riferimento. In questo caso, la scelta dell’influencer è strategica.
Lato influencer, invece, il dato saliente del report riguarda lo status della propria attività: nonostante una professionalizzazione crescente, continuano a coesistere forme di collaborazione a pagamento e soluzioni organiche. Tanto che a volte sono proprio le collaborazioni gratuite e spontanee a generare i contenuti più interessanti per la propria community di riferimento. Per la precisione, il 48% degli influencer è disponibile a collaborazioni gratuite se si tratta di un brand che amano, per il 46% dipende dal compenso alternativo offerto mentre il 7% accetta solo se sono coinvolti anche altri influencer o blogger.
Quest’ultima voce, peraltro, è anche una modalità che le aziende utilizzano per aumentare l’engagement su un determinato prodotto. Due o più account che interagiscono sono una leva per migliorare i risultati in termini di visibilità e persone raggiunte. Perché il vero tema, alla fine, è il ritorno dell’investimento (altrimenti detto ROI). Per calcolarlo, le metriche da seguire e monitorare sono diverse anche se una corrispondenza uno a uno fra follower guadagnato e cliente conquistato non può esserci. Lo scopo di queste campagne marketing, piuttosto, è quello di generare il miglior contenuto possibile, farlo circolare al momento giusto e all’interno del target di riferimento. In questo caso, la scelta dell’influencer è strategica, funge da pivot per insistere su una fetta di entusiasti, simpatizzanti e possibili clienti.
Ecco allora che uno dei prerequisiti a monte di ogni campagna pubblicitaria di questo tipo è non farsi gabbare dai molti wannabe che popolano i social (Instagram su tutti). I modi per scovarli sono diversi. Innanzitutto la comparazione fra numero di like per post e quello dei follower, così come l’interazione generata da ogni singolo post: il rischio di un utilizzo di bot è sempre più dietro l’angolo anche se un tasso di partecipazione a un post contenente una foto superiore alla media del 2,7% potrebbe essere il segnale di un ottimo candidato. Sempre per dare la caccia ai bot, anche l’analisi della community e del loro modo di rispondere ai vari post può accendere qualche spia: testi troppo stringati e impersonali oppure con una sfilza di emoji potrebbero essere stati generati automaticamente. Infine, il buon influencer è quello che non accetta tutto e tutti, ma è disponibile a una relazione proficua prima di tutto perché meglio di altri conosce i propri follower e per garantirsi una continua crescita pone un filtro alla fonte.