Gruppi senza leader che progettano prodotti innovativi, squadre di persone con competenze differenti per risolvere problemi interni all’azienda. Più in generale, un rifiuto dell’ambiente gerarchizzato, in cui si delega poco e si comanda troppo: «Da 50 anni si dice di fare squadra, ma abbiamo strutture piene di capi e capetti che non sanno delegare. E poi c’è la resistenza a innovare. Anche la piccola impresa è troppo gerarchizzata. Questo è il nostro problema», dice Luciano Pero, professore al Politecnico di Milano in un’intervista a Repubblica, e coglie il punto di una nuova tendenza organizzativa all’interno delle imprese. Quella di organizzazioni non gerarchiche, fondate su governance orizzontali e su competenze ibride e non più vocazionali.
È anche l'Economist a raccontarlo, nel suo numero speciale sulla formazione del gennaio 2017: una startup americana chiamata Burning Glass Technologies, che analizza il mercato del lavoro raccogliendo dati dagli annunci online, ha scoperto che le aziende, perlomeno in America, non chiedono saperi professionali parcellizzati e specialistici, bensì saperi nuovi, ibridi, che passano dagli studi filosofici alla programmazione informatica, per esempio. E anche Stefano Micelli professore all’Università Ca’ Foscari, lo ha detto, proprio sulle pagine di Morning Future: «L’obiettivo, per un Paese come l’Italia, è provare a creare ponti plausibili tra cultura umanistica e cultura tecnica. Non possiamo avere tecnici senza sensibilità per la nostra tradizione culturale. E non possiamo accettare classi dirigenti che non apprezzano e non conoscono i saperi tecnici e il lavoro manuale».
Perché ciò sia vero, perché l’ibrido sostituisca il vocazionale, ancora una volta, serve il gioco di squadra, serve la capacità di uscire dalla bolla dei propri saperi e delle proprie gerarchie, per attivare un processo di relazione tra pari, che però hanno competenze diverse. In altre parole, servono come non mai processi in grado di aiutare la costruzione di queste nuove unità di base dell’organizzazione aziendale. In altre parole, serve il team building: «È nel nostro dna – spiega Renata Duretti, hr manager di Ikea Italia a Repubblica – è uno dei valori portanti dell’azienda. Cerchiamo di costruire sempre dei gruppi, i più diversi possibile, mettendo insieme funzioni e background differenti per prendere la decisione migliore, anche con i manager e i coworker che incontrano il cliente ogni giorno. La filosofia seguita è quella di mescolare insieme funzioni aziendali e percezioni della realtà: retail, logistica, distribuzione, acquisti, sviluppo del range».
Serve la capacità di uscire dalla bolla dei propri saperi e delle proprie gerarchie, per attivare un processo di relazione tra pari, che però hanno competenze diverse.
Al di là di esempi come questo, il team building non gode sempre di un’ottima reputazione. Colpa, probabilmente, di un approccio caricaturale di alcuni sketch televisivi o di serie fortunate come The Office che lo derubricano a corse sui carboni ardenti, improbabili haka di gruppo e altre attività simili ad alto tasso di testosterone. Non è così, in realtà. Nonostante gli stereotipi il team building è una cosa molto seria e, a detta di molti manager, è uno dei più importanti investimenti che si possono fare all’interno di un azienda.
A teorizzarlo, inizialmente, fu Bruce Tuckman, ricercatore americano che canonizzò il modello delle fasi di sviluppo di un team: il forming, in cui i membri del gruppo sperimentano il terreno relazionale in cui si trovano per orientare i loro comportamenti in funzione dell’obiettivo da perseguire. Lo storming, in cui il gruppo inizia a raccogliere e mettere in evidenza le idee progettuali dei singoli membri in funzione del lavoro da svolgere. Il norming, in cui il gruppo di lavoro inizia a confrontarsi con uno spirito orientato al raggiungimento dell’obiettivo, le opinioni personali sono valorizzate in funzione della differenze e gli obiettivi di progetto prevalgono su quelli individuali. Il performing, che rappresenta lo stadio in cui il gruppo si presenta ormai maturo, focalizzato sul compito e orientato alla produttività e al rendimento. E infine l’adjourning è la fase finale del gruppo, quella che precede il suo scioglimento. Essa può essere sia spontanea, sia programmata, e si concretizza quando il gruppo ha raggiunto gli obiettivi che si era prefissato.
Prendiamo la fuga da una Escape Room, una delle attività di team building più in voga in questo periodo. Il gruppo viene imprigionato in una stanza dalla quale si potrà uscire, in un tempo prestabilito, solamente risolvendo degli enigmi o svolgendo lavori in gruppo. Si tratta di un’attività apparentemente ludica, che tuttavia tocca tutte le fasi di sviluppo del team teorizzate da Tuckman: migliora la comunicazione tra colleghi o tra dipendenti e dirigenti (forming), ispira il pensiero creativo collettivo attraverso attività di brainstorming nel tentativo di trovare una via d’uscita (storming), promuove le abilità di risoluzione dei problemi (norming), motiva le persone e fa emergere le potenziali leadership (performing). Motivo, quest’ultimo, per cui le attività di team building sono molto utili anche nel contesti di selezione delle risorse umane. Più cooperazione, meno competizione. Anche questa è modernità, per fortuna.