Si chiama “White Economy” e include tutto il settore dei servizi sanitari e di cura rivolti alle persone, dai malati ai disabili fino agli anziani. Un cluster produttivo articolato, di cui fanno parte l’industria farmaceutica, quella biomedicale e della diagnostica, e anche il settore dell’assistenza personale. Dal privato al pubblico.
Secondo il Censis, solo in Italia le attività riconducibili al benessere della persona hanno raggiunto un valore complessivo di 290 miliardi di euro, pari al 9,4% della produzione complessiva nazionale. Seconda solo al commercio, e più alta di settori chiave come trasporti e costruzioni. E con l’allungamento della durata media della vita, con la crescente domanda di salute, assistenza e previdenza per avere la sicurezza di un futuro in buone condizioni, il valore è destinato a crescere.
Crescono i bisogni, quindi, ma né il sistema sociale né il welfare familiare da soli avranno le risorse per dare una risposta completa. Oggi sono meno del 20% gli italiani che affermano di trovare nel welfare pubblico una piena risposta ai loro bisogni. L’assistenza agli anziani è affidata per lo più alle badanti pagate dalle famiglie. E la spesa sanitaria dal 2010 in poi ha subito tagli lineari. Più della metà dei nuclei familiari di livello socio-economico basso è convinta che un eventuale aggravio dei costi per il welfare sarà incompatibile con i loro redditi disponibili. La risposta allora andrebbe cercata in una integrazione tra pubblico e privato. Attraverso il mix di servizi offerti da imprese, cooperative, assicurazioni, enti pubblici e associazioni di categoria.
Il settore non a caso rappresenta un asset importante dell’economia nazionale. Secondo le ultime stime, la white economy impiega oggi 3,8 milioni di lavoratori, che corrispondono al 16,5% degli occupati del Paese. Il 42,2% del valore della produzione è attribuibile ai servizi sanitari, il 17,9% alle attività pubbliche di gestione e regolazione nei settori della sanità, assistenza e previdenza, il 17,7% all'industria del farmaco e delle attrezzature medicali, il 10,6% alla previdenza complementare e alle assicurazioni del ramo salute, il 10,4% alle attività di personal care, l'1,1% all'istruzione universitaria.
E la produttività è molto alta. Il valore aggiunto di ciascun addetto “white” è di 60mila euro, più alto di quello registrato in agricoltura, edilizia, commercio e ristorazione, inferiore solo al terziario avanzato e ad alcuni comparti del manifatturiero. Non a caso, secondo il Censis, la “White Economy” è anche «un formidabile volano di sviluppo per il Paese», in grado di generare effetti moltiplicativi sull’intera economia del Paese. Inclusa l’occupazione.
Ogni 100 euro spesi o investiti nella “White Economy” attivano 158 euro di reddito aggiuntivo nel sistema economico. E per 100 nuove unità di lavoro nei settori “white”, se ne attivano ulteriori 133 nel complesso dell’economia italiana.
Per 100 nuove unità di lavoro nei settori “white”, se ne attivano ulteriori 133 nel complesso dell’economia italiana.
In un Paese che invecchia, lo sviluppo del welfare e dell’economia a esso legata può avere non solo una ricaduta sociale, quindi, ma anche economica. E con la disoccupazione giovanile che stenta a scendere, può rappresentare un canale privilegiato di occupazione per molti ragazzi. Insieme al settore digital e tecnologico, oggi la “White Economy” rappresenta infatti uno dei mercati maggiormente in grado di impiegare i giovani laureati italiani.