Si chiama legge numero 196/1997, ma nel dibattito pubblico italiano è nota come “Pacchetto Treu”. Se volete cercare uno spartiacque nel mercato del lavoro italiano, è da qui che dovete partire. Il Pacchetto Treu ha infatti introdotto, per la prima volta nell’ordinamento giuridico italiano, i primi elementi di flessibilità organica nel mercato del lavoro. Il tema della flessibilità del mercato del lavoro sembra essere un tratto caratterizzante della nostra società, stando almeno alla centralità che assume nel discorso politico e nei dibattiti sociali. Se da una parte qualcuno la individua come origine di tutti i mali -dalla precarietà alla disoccupazione-, dall’altra è la stessa flessibilità ad essere talvolta individuata come l’unica ricetta per rimettere in moto il mercato del lavoro in Italia.
Il libro “L’Italia che lavora. Persone, flessibilità e prospettive”, edito da Feltrinelli, è un prodotto editoriale che fa da bussola per orientarsi in questo dibattito, un volume che mira ad allargare il punto di vista, volgendo lo sguardo al passato per analizzare non soltanto le ragioni politiche e economiche della flessibilità, ma anche le sue radici culturali e sociologiche. Il punto di partenza è un luogo comune da smontare. Troppe volte la flessibilità è individuata come il punto di rottura tra una società prospera e stabile – e dunque felice – e un’altra, quella attuale, dominata dall’incertezza e dall’instabilità, conseguenze proprio della deriva flessibile.
In realtà possiamo pensare che il capitalismo sia per sua stessa natura flessibile, dovendo adattare le esigenze del profitto a periodi, assetti e condizioni diverse. Persino durante il fordismo si era creata una spaccatura tra occupazioni normativamente garantite (per esempio, in Italia, la grande industria e il pubblico impiego) e altre occupazioni prive di queste tutele istituzionali, dalla piccola impresa fino all’economia informale, prevalentemente di tipo familiare.
La parola magica, in Europa, è flexicurity, ovvero l’equilibrio perfetto tra flessibilità e protezione sociale, ma è un lusso che in pochi possono permettersi
Seppure con significati diversi, il tema della flessibilità era già oggetto di riflessione sociale e non deve dunque essere pensato come una novità assoluta. La nuova sfida, semmai, è come facilitare la mobilità e, al tempo stesso, garantire un paracadute al cittadino durante la fase di transizione in cui è alla ricerca di un lavoro. La parola magica, in Europa, è flexicurity, ovvero l’equilibrio perfetto tra flessibilità e protezione sociale. Come si evidenzia nel libro, la flexicurity è però un lusso per pochi: favorire il lavoro flessibile e implementare ammortizzatori sociali diffusi è un modello costoso, adatto in genere a Paesi piccoli, omogenei e in grado di assicurarsi nicchie di mercato. Il caso della Germania, in cui una generosa protezione assistenziale dei nuovi lavoratori flessibili non ha limitato l’aumento delle diseguaglianze sociali, dimostra che anche il più virtuoso capitalismo europeo non riesce a permettersi una flexicurity efficace.
Nel libro si nota inoltre come in Italia, dal Pacchetto Treu (1997) in avanti, si sia accelerato il processo di flessibilizzazione del lavoro, sia cambiando le tutele del posto di lavoro sia offrendo la possibilità alle aziende di disporre del lavoratore per mansioni diverse, con tempi e luoghi differenti. Se in certi casi i nuovi contratti favoriscono la transizione verso il lavoro stabile, l’abuso del ricorso a forme contrattuali atipiche ha fatto sì che una fetta di lavoratori restasse intrappolata nel precariato, come confermano i dati Istat che parlano di oltre mezzo milione di persone rimasto precario per almeno 5 anni, dal 2008 al 2013.
Le cause della debole crescita dell’Italia, comunque, sono individuate non solo nelle regole del mercato del lavoro, ma da problemi strutturali che riguardano la produttività e la scarsa innovazione delle imprese. Da Treu al Jobs Act, passando per la Legge Biagi e la Riforma Fornero, non siamo stati in grado di accompagnare il processo verso la flessibilità a una riforma complessiva degli ammortizzatori sociali e, soprattutto, a un investimento efficace sulle politiche attive del lavoro. Anche per questo la strada da fare è ancora molto lunga.